di Marco Costa
Ad una settimana di distanza dagli accadimenti londinesi, mi pare doveroso proporre una bozza di riflessione che cerchi di inquadrare gli avvenimenti britannici al di là della superficialità con cui tanto i media borghesi quanto certa stampa patinata e perbenista di sinistra hanno sbrigativamente liquidato il fenomeno come mera questione di ordine pubblico impolitico.
Nottate con sirene urlanti, roghi infernali di interi quartieri da Tottenham a Croydon, fiamme incontrollate a negozi, edifici, poliziotti in affanno nei vani inseguimenti di gruppi che capillarmente emergevano e si dileguavano repentinamente nelle strade periferiche, scene di guerriglia e saccheggio che hanno dipinto le nottate di questa estate londinese con i colori di un'apocalisse postmoderna. E poi il solito copione di morti (3 almeno, ma altri 3 a Birmingham paiono legati più o meno direttamente alle stesse dinamiche dei riots), feriti, repressione indiscriminata, stato di assedio e dichiarazione di fatto di un coprifuoco permanente nella capitale e non solo, blindata con almeno 16 mila agenti antisommossa in servizio notturno permanente.
Se il brutale ed ingiustificato assassinio di un giovane pregiudicato di origine giamaicana da parte della polizia londinese – oltretutto, come se non fossero bastati i recenti episodi di discredito della stessa a seguito dell'imbarazzante coinvolgimento dei vertici di Scotland Yard nel Murdochgate con l'accertamento di ripetuti casi di implicazione in fenomeni di costante delazione e corruzione a favore di media bramosi di facili scoop – si è configurato come episodica scintilla, si tratta di scovare l'humus sociale in cui le periferie londinesi hanno costituito il terreno all'accensione di inediti fenomeni di insurrezione in Gran Bretagna, almeno dai moti a sfondo prevalentemente etnico dei primi anni '80, epoca delle famigerate rivolte di Nothing Hill e Brixton, che già allora indicavano un'ingovernabilità totale della società londinese agli albori del tatcherismo e poco prima dei moti operai che strenuamente si opposero per la prima metà dello stesso decennio a quel governo conservatore accanito in una mastodontica opera di riconfigurazione capitalistica, privatistica e reazionaria della società britannica. In effetti le analogie con la geografia urbana, economica e sociale della Londra di tre decenni orsono sarebbero molte; tuttavia, ed è quello che credo sia più interessante da sottolineare in questo passaggio, il movente dei riots attuali nonché il substrato sottoculturale in cui si sono alimentate le rivolte presenta caratteri meravigliosamente indicativi, per larga misura paradigmatici, dell'instabilità delle metropoli nei tempi del capitalismo postmoderno.
Il rapporto diretto tra speculazioni finanziarie ed impoverimento delle classi sociali più emarginate delle periferie (pauperizzazione del proletariato e proletarizzazione del ceto medio, avrebbe detto Marx), tra politiche economiche di lassaiz faire e nichilistica disperazione giovanile, pare sia stato timidamente scomodato anche dall'opposizione laburista di Ed Millbrand; e se i tabloid conservatori invocano tolleranza zero e plaudono alla ventata reazionaria di una polizia affaccendata nel ricorrere alle maniere forti, anche a larga parte dell'opinione pubblica labour pare naturale interrogarsi sul fallimentare dispositivo di desolazione economica ed educativa in cui il fenomeno del ribellismo giovanile ha attinto per decenni silenziosamente, covando sotterraneamente un potenziale rivoltoso che ha stupito solo i più ingenui, comunque del tutto ignari della costante commistione nella periferia dura di Londra di sottoculture, ribellismo giovanile e connivenze – cercate o obbligate – con ambienti delle gang malavitose.
Ma ammettiamolo, a scanso di equivoci: anche larga parte dei gruppi politicizzati della sinistra radicale inglese, da quel che mi pare di capire, abbondano di analisi rivoluzionarie un po' forzate; ne è un esempio, tra i tanti, l'acceso dibattito tra i compagni del SWP (Socialist Workers Party, di estrazione operaista-trotskista) e i compagni del CPGB (Communist Party of Grait Britain, terzinternazionalista), affaccendati in una controversia infinita nel tentativo di scorgere e fare decantare improbabili elementi rivoluzionari in occasione delle recenti sommosse che ben presto dalla capitale si sono allargate a macchia d'olio anche alle città di Birmingham, Nottingham, Liverpool e Manchester che, guarda caso, presentano nelle periferie più o meno analogamente lo stesso quadro di emarginazione, povertà, precarietà, atomizzazione e rifugio comunitario nelle flebili – almeno di fronte all'ondata della globalizzazione neoliberista – identità etniche. Insomma credo che anche questa volta, come in occasione di altre sommosse urbane recenti (si pensi alle banlieu francesi), le varie voci che salutano l'avanguardia della rivoluzione sociale prossima ventura (come appunto fanno i compagni dell'SWP) o quelle che rimandano ad una successiva educazione leninista della classica riottosità lumpen dei sobborghi spoliticizzati (come più o meno scolasticamente fanno i compagni del CPGB) siano letture legittime ma a cui sfugge forse il carattere scivoloso, poliedrico e contraddittorio della rivolta giovanile inglese.
La rapidità e la destrezza con cui la protesta per l'uccisione da parte della polizia del giovane Mark Duggan si è trasformata in una cronaca di saccheggi, incendi e vandalismo estraneo ad ogni ordine simbolico e rituale delle ribellioni classiche (basti ricordare le moltitudini di studenti che anche con metodi e rivendicazioni radicali si erano appropriate delle strade londinesi nello scorso inverno contro i vergognosi tagli all'istruzione perpetrati da parte del governo Cameron), suggerendoci semmai un tipo di sommossa che si beffa di ogni analisi categoriale, delle letture, delle sovrastrutture politiche e semiotiche a cui certa sinistra pseudomarxista troppo scolasticamente si è abituata.
Mi pare che più che ai testi rivoluzionari, questi fenomeni vadano inquadrati con le categorie del tribalismo postomoderno di cui parla il semiologo francese Michael Maffessoli, in cui sulla ceneri di una modernità sgretolata in ognuno dei suoi sistemi valoriali con pretese universalistiche, l'atomizzazione sociale induce solamente a rimodulazioni comunitarie orientate alla provvisorietà degli scopi (siano essi valoriali ed identitari o volti al saccheggio di un Apple Store alla caccia proprio di quelle icone che il totalitarismo consumistico fa apparire come necessarie ed includenti), o alla modernità liquida descritta da Baumann quando si fa cenno alla disintegrazione dei tessuti urbani e sociali negli spazi metropolitani contemporanei; ma certamente anche alla precarietà esistenziale di cui ci ha parlato magistralmente il sociologo Richard Sennet, come prodotto ultimo dell'abbandono dell'uomo ai tempi del turbocapitalismo in cui l'unico orizzonte è quello infinitesimale e diacronico, scandito unicamente dal tempo di produzione precaria ed anelito quotidiano al consumo bulimico di beni.
Si tratta quindi di gruppi fluidi, e chi ha frequentato Londra è fin troppo abituato alla cronaca quotidiana di omicidi, aggressioni fratricide e criminalità che hanno per protagonisti abituali gli adolescenti della città. Come in un vorticoso movimento, sfaccendati, precari, spesso segnati da un inquietante agnosticismo ideologico, educativo e valoriale, gli adolescenti delle metropoli occidentali postmoderne battono schizofrenicamente le strade metropolitane ostentando l'iconografia del loro abbigliamento griffato, assorbendo le contraddizioni di un'intera metropoli, di un intero modello sociale.
Quando l'inquietudine trova la scintilla, trova il pretesto e l'occasione per tramutarsi in disordine, per strappare il velo della realtà, ecco che l'evento insurrezionale assume forme simili ad un flash-mob, puro happening di rabbia del tutto e subito, dello sfogo febbrile frammisto di disperazione esistenziale di chi non ha nulla da perdere, del rito anarcoide e liberatorio in cui la legge del più forte, la stessa che il capitalismo ammanta nelle sue istituzioni, non è più lo scompaginamento dei valori istituzionali quanto il suo più estremo e spettacolare compimento.
Di fronte agli scricchiolii finanziari del sistema occidentale, in cui la finanza ha inventato ricchezze fittizie (i subprime) piazzando ai risparmiatori azioni farlocche finalizzate alla copertura di debiti individuali e statali quali dilazionamento della ricattabilità dei lavoratori (nella loro triplice veste anche di consumatori e risparmiatori), in cui i governi (come gli inglesi, appunto) bombardano popolazioni inermi sui 3 continenti in modo sistematico nella speranza di allargare approvvigionamenti di materie prime e di decomprimere la stagnazione economica nell'assurdità di una crisi economica in cui le lobby si ostinano a sperare di curarne gli effetti con le cause stesse che l’anno generata (sovrapproduzione/sottoconsumo, divaricazione sociale, precarizzazione contrattuale, privatizzazione dei beni e del welfare, finanziarizzazione, deindustrializzazione), i ragazzi londinesi hanno trovato appagante – più o meno consciamente – reagire in modo tanto tribale quanto diretto, saccheggiando e spaccando tutto. Non facendo altro che quello che l'uomo occidentale ha altrettanto più o meno inconsciamente somatizzato da tempo nelle sue elite dominanti su scala planetaria.
Croydon brucia, contemporaneamente le borse planetarie crollano: in questo tratteggio apocalittico, il fatto che questi ragazzi siano condannabili dalla falsa coscienza conservatrice o che abbiano qualche reminiscenza politica o che sia solo una lauta ed inaspettata occasione di saccheggio mi pare un elemento, paradossalmente, secondario. Ken Livingstone, rimpianto ex sindaco laburista della capitale inglese, dice pubblicamente che questi ragazzi “semplicemente non pensano di fare parte di questa società”. Arduo davvero, anzi epocale, porsi il quesito se il sommo errore, oggi, sia quello di chi ritiene di non fare parte di questa società o quello di chi ritiene che questa società sia solo la somma nebulosa di individualità atomizzate giunta al capolinea nel suo tentativo di consolidare in occidente ed esportare altrove il totalitarismo consumistico, oltretutto con basi economiche platealmente fallimentari.
Ma da comunisti non possiamo certo crogiolarci sterilmente nella fine di un'epoca; dobbiamo arricchire la progettualità per l'epoca futura che già ci attende.