Assemblea 9/10 giugno


Pubblichiamo di seguito i documenti approvati all’assemblea del 9 e 10 giugno a Roma, per la costruzione del «Fronte della Gioventù Comunista»

Tesi sulla costruzione della gioventù comunista nella fase attuale.

 1)     RADICAMENTO DI CLASSE. L’obiettivo prioritario dell’organizzazione è la conquista del radicamento di classe tra i giovani proletari. Questo principio informa tutta l’attività dell’organizzazione in ogni sua declinazione organizzativa ed in ogni attività politica. L’azione della gioventù comunista dovrà svolgersi in ogni modalità, luogo e tempo in cui tale obiettivo sia realizzabile con priorità al radicamento sui luoghi di lavoro e sulle scuole tecniche e professionali.
2)     MINORANZA MA NON MINORITARI. Essere minoranza dal punto di vista numerico non vuol dire condurre una politica minoritaria. Coscienti della nostra condizione attuale dobbiamo sempre tenere a mente che una minoranza organizzata e attiva è sotto ogni punto di vista più forte di una maggioranza disorganica, frammentata e passiva. Le nostre rivendicazioni politiche dovranno rivolgersi senza alcun timore a livello di massa, evitando al contrario meccanismi di chiusura e riduzione del nostro campo d’azione. Essere minoranza è una condizione oggettiva e temporanea, essere minoritari è una concezione politica che noi dobbiamo rifiutare in ogni nostra attività.
3)    IL MILITANTE COME AVANGUARDIA. Coerentemente con quanto affermato fino ad ora, la nostra organizzazione ad ogni livello dovrà sviluppare e promuovere il ruolo della militanza. Non abbiamo bisogno di tesserati che compaiano su indirizzari telefonici, senza essere mai presenti alle attività dell’organizzazione, non abbiamo elenchi da infoltire, tesseramenti da gonfiare. Ogni militante della nostra organizzazione dovrà sempre tenere a mente che essere un militante della gioventù comunista vuol dire essere avanguardia. Questa condizione comporta prima di tutto il non essere estranei alla massa, il non chiudersi in un mondo immaginario fuori dalla realtà e allo stesso tempo essere capaci di orientare politicamente la massa di cui si è parte.
4)     LA GIOVENTU’ COMUNISTA COME PERCORSO DI FORMAZIONE Per sviluppare a pieno tale condizione ogni livello organizzativo della gioventù comunista attiverà iniziative di formazione, discussione e sviluppo per introdurre i nuovi giovani militanti alla lotta. La gioventù comunista è in questo senso un percorso di formazione politica. Non dobbiamo chiudere le porte a giovani privi della necessaria conoscenza ed analisi (che peraltro è impossibile trovare nella società attuale). La nostra sfida è rendere quei giovani militanti e quadri dell’organizzazione attraverso la formazione, intesa tanto in senso politico e storico, quanto in senso pratico strettamente legato all’attività quotidiana. Specie tra i ragazzi più giovani la valutazione si compie sul profilo della volontà di lottare, nella partecipazione e nella presenza, nell’obiettivo dell’impegno quotidiano. Dare a questa spinta iniziale la giusta direzione politica è compito nostro.
5)     SVILUPPO DEL DIBATTITO POLITICO INTERNO. Lo sviluppo del dibattito politico su ogni questione di rilevanza internazionale, nazionale e locale è ad ogni livello un dovere dei gruppi dirigenti nazionali e dei quadri locali dell’organizzazione. La partecipazione di tutti i militanti alla definizione della linea politica dell’organizzazione è il solo strumento che può garantirne la piena condivisione ed assimilazione, la sua accettazione e di conseguenza un impegno militante frutto di una piena condivisione degli obiettivi delineati e non di una mera necessità di fare. In ogni occasione deve essere possibile presentare proprie osservazioni, senza alcun pregiudizio. Per assicurare allo stesso tempo l’effettiva capacità organizzativa della gioventù comunista, salvo quanto detto in precedenza, vige il principio secondo cui chi non partecipa si adegua e che le decisioni prese a riunioni di ogni livello sono vincolanti per tutti i militanti (centralismo democratico).
6)     RELAZIONI E COORDINAMENTO INTERNAZIONALE. Lo sviluppo ad ogni livello della discussione su questioni internazionali va di pari passo alla costruzione di salde relazioni internazionali della gioventù comunista con le altre organizzazioni giovanili comuniste nel mondo, con particolare riguardo al quadro europea. L’obiettivo della costruzione di un coordinamento stretto tra le organizzazioni giovanili europee e mondiali è assunto come lavoro quotidiano dell’organizzazione, convinti che, mai come oggi, di fronte alla globalizzazione e ai processi di riduzione della sovranità nazionale, sia necessario coordinare l’azione dei comunisti a livello internazionale.
7)     LA PROPAGANDA. Da questa riflessione nasce la necessità dello sviluppo di una politica di propaganda che si rivolga a 360° alla società. Viviamo nell’era della comunicazione di massa, della comunicazione in tempo reale, nel mondo dell’immagine che è divenuta sinonimo stesso di messaggio. Sono dati oggettivi che non possono che costituire un punto di partenza su cui innestare la nostra capacità organizzativa. Spesso si tratta di armi a doppio taglio che dobbiamo essere in grado di sfruttare. L’imperativo è condizionare senza lasciarsi condizionare dalla cultura della comunicazione di massa.
8)  RIPORTARE IL CONFLITTO SUL PIANO REALE. Sotto questo profilo è necessario rilevare la tendenza ad una certa “virtualizzazione del conflitto” che corrisponde ad un disegno chiaro e preciso delle classi dominanti di spostare su terreni infruttuosi la lotta, trasformare la partecipazione reale in adesione virtuale. È quello che vediamo tutti i giorni su Facebook, che sposta a livello di nuove generazioni il fenomeno della politica d’opinione, già saldo nelle vecchie generazioni a causa di anni di politica da salotto televisivo. Noi dobbiamo saper distinguere chiaramente l’utilizzo della televisione e di internet come mezzi di propaganda, nuove casse di risonanza messe a disposizione dallo sviluppo della tecnologia, dal terreno della lotta reale, che si alimenta anche attraverso la propaganda fatta in questo modo, ma che non può prescindere dalla riconduzione del rapporto umano e quindi politico a livello reale. Oggi più che mai è valida l’affermazione di Lenin secondo cui «la matematica potrà scoprire la quarta dimensione, ma lo Zar potrà essere rovesciato solo nella terza»

  

DISPOZIONI ORGANIZZATIVE:


- ASSEMBLEA DI ORGANIZZAZIONE A SETTEMBRE. L’assemblea da mandato al coordinamento nazionale d individuare, sentite le organizzazioni locali, una data nel mese di settembre per convocare un’assemblea nazionale per definire gli obiettivi politici immediati e l’azione dell’organizzazione durante l’autunno, nonché integrare nella discussione nuove organizzazioni e compagni aderenti.

- CONGRESSO FONDATIVO A GENNAIO/FEBBRAIO. Al fine di dare definitiva stabilità politica ed organizzativa al Fronte della Gioventù Comunista, l’assemblea da mandato al coordinamento nazionale di individuare una data a cavallo tra il mese di gennaio e quello di febbraio per il congresso nazionale fondativo dell’organizzazione. Prima del congresso nazionale avranno luogo ad ogni livello conferenze congressuali locali con discussione del documento politico e presentazione di emendamenti, nonché individuazione degli organismi dirigenti locali. Il congresso sarà il momento di definizione dell’assetto organizzativo ad ogni livello dell’organizzazione. Al congresso sarà redatto statuto dell’organizzazione.

- COORDINAMENTO NAZIONALE PROVVISORIO: è costituito il coordinamento nazionale provvisorio con funzione politica/organizzativa. Il compito del coordinamento è discutere riportando sul territorio ogni questione di rilevanza politica ed organizzativa. Il coordinamento è sintesi delle organizzazioni politiche aderenti e dei territori presenti. Autonomamente valuta in questa fase, fino al mese di settembre l’integrazione di nuovi compagni espressione di nuovi territori od organizzazioni aderenti.


Contributi di discussione su questioni singole.

Per l’analisi sulla crisi economica si assume come base di partenza l’analisi condotta dal collettivo Senza Tregua nell’autunno 2011.


UNIONE EUROPEA E SOVRANITA’ POPOLARE.

Mai come sull’Unione Europea si evidenzia il fallimento politico della sinistra italiana. La sinistra italiana in tutte le sue componenti è infatti tradizionalmente filo europeista. Dal richiamo alla figura ed al pensiero di Altiero Spinelli – completamente stravolto e adattato agli scopi del capitalismo nella costruzione della odierna UE – all’idea dell’internazionalismo e di un pacifismo privo dei dovuti elementi di analisi, l’Unione Europea ha visto nella sinistra italiana ed europea un appoggio incondizionato. Mai è venuta una lettura critica del processo di progressiva estinzione della sovranità nazionale, mai un’analisi strutturale delle politiche europee, mai una nota critica, bollata subito come populista, reazionaria e “di destra”. Proprio sulla parola d’ordine della contrarietà all’Unione Europea in tutto il continente movimenti di estrema destra stanno costruendo la base del loro consenso sociale, sfruttando la crisi, la gestione operata da Bruxelles e condendo il tutto con slogan razzisti. Il tradimento della sinistra ancora una volta sta generando questo.

Analisi e ruolo dell’Unione Europea

L’Unione Europea non ha nulla a che vedere con lo spirito internazionalista. Essa è un’organizzazione capitalistica, dal punto di vista internazionale un’organizzazione “sui generis”, primo esempio nel mondo di un’organizzazione regionale a cui gli Stati hanno devoluto parti importanti della propria sovranità nazionale, senza che su alcune questioni fondamentali siano titolari di un potere di decidere successivamente se applicare o meno le misure della UE. L’Unione Europea è stato lo strumento con cui il capitalismo ha imposto una serie di politiche e di indirizzi tali da rendere alla lunga la funzione dei governi nazionali, una presenza di mera facciata. Se si analizzano le riforme condotte in questi anni in materiali di lavoro, istruzione, università, servizi sociali, sanità: tutte hanno la matrice comune della provenienza dalle stanze della Commissione Europea. In larghissima parte tutto ciò contro cui siamo scesi in piazza in questi anni proviene da testi di direttive europei, vincoli di stabilità e altre fonti di natura comunitaria. La perdita di funzione politica del governo nazionale è stata tale da segnare nei casi della Grecia e dell’Italia la presenza di governi definiti tecnici o di unità nazionale imposti direttamente dalla UE, dalla BCE e dal FMI. Persino il feticcio del voto, è venuto meno di fronte alla potenza della UE. L’Unione Europea non nasce su fondamenta omogenee. Internamente ai paesi della UE infatti vi è uno scontro aperto e dichiarato tra grandi monopòli internazionali e piccole borghesie locali. In quei paesi dove la piccola e media industria è più diffusa la tendenza allo schiacciamento di questa e all’accumulazione del capitale in poche mani, nella forma di grandi agglomerati monopolistici, genera tensioni enormi. Basti pensare a come l’asse capitalistico-finanziario di matrice franco-tedesca ha fino ad oggi imposto politiche, nella forma di tassi d’interesse, valore della moneta, funzionali allo sviluppo della propria capacità di profitto, che hanno contribuito a schiacciare verso il basso la condizione dei popoli europei, in particolare dei PIIGS. Il pilastro su cui si fonda l’Unione Europea è quello della libera circolazione di persone, merci, dei capitali e dei servizi. Dietro l’apparente bellezza del poter viaggiare nella UE senza il passaporto e senza passare la dogana, sta in realtà la più grande opera di costruzione di un mercato sovranazionale per i grandi monopòli europei. Più grande perché di fronte ad una tendenza strutturale alla globalizzazione l’Europa ha risposto con una struttura giuridica in grado di imporre nettamente, anche sotto questo profilo, le sue volontà.
Così il fenomeno della delocalizzazione verso paesi con costo del lavoro più basso non solo è reso possibile, ma è sostanzialmente reso intangibile da parte della UE, attraverso l’inserimento nell’Unione di paesi a diverso grado di sviluppo e della realizzazione di accordi con altri paesi europei. È il caso della Polonia, nel primo, e dei paesi balcanici nel secondo, a vario titolo riserve di manodopera a basso prezzo che ha l’obiettivo chiaro di distruggere le conquiste sociali dei lavoratori, acuire la concentrazione del capitale in monopòli transnazionali. Si parla spesso dell’Unione Europea come di un processo di pace. Ma l’UE è stata in grado, quando ha voluto, di presentare tutto il suo volto imperialista con la guerra in Libia ed è i blocchi di partenza per la Siria e l’Iran. Nel caso della Libia, un paese indipendente (con tutte le accuse che possono essere rivolte a Gheddafi, ma questa non è la sede) è stato privato della sua sovranità con il chiaro intento di impossessarsi delle risorse petrolifere di cui dispone.

L’Unione Europea e lo scontro in atto a sinistra

Lo scontro in atto a sinistra sulla questione della UE è di fondamentale importanza per capire l’ambito delle relazioni internazionali da tenere e i processi di costruzione di un fronte unico europeo di lotta al capitalismo e all’Unione Europea. La sinistra socialdemocratica è da tempo la maggiore esecutrice dei compiti provenienti da Bruxelles. La SPD in Germania, così come il PD in Italia, passando per il PSE spagnolo e il PASOK Greco sono stati in questi anni gli assi portanti della realizzazione delle politiche europee negli stati e attraverso le loro cinghie di trasmissione (sindacale in primis) hanno orientato vasti strati di popolazione al sostegno alla UE. Accanto a questi il movimento comunista è stato spaccato da un processo lungo che affonda le radici proprio nell’eurocomunismo e che oggi vede nella Sinistra Europea la presenza di una forza politica fortemente europeista. Alla Sinistra Europea appartengono la Federazione della Sinistra in Italia, Syriza in Grecia, forse come il PCE in Spagna e il PCF in Francia. Questi partiti sostengono da sempre a vario titolo la necessità della UE. Alla critica al capitalismo hanno sostituito in tutti i loro documenti di analisi quella al neoliberismo, facendo intendere in questo modo che esista un sistema buono, quello delle riforme sociali del dopoguerra, ed un sistema cattivo quello liberista dagli anni ’80 in poi. In questa analisi manca completamente la consapevolezza che internamente al sistema capitalistico le teorie mutano sulla base delle condizioni economiche, storiche e degli interessi, ma non muta la sostanza predatoria del capitalismo. Il capitalismo dal volto umano non esiste e la maggiore propensione a margini di riforma sociali è stata tipica dell’era della competizione con l’URSS che rappresentava la minaccia costante, e allo stesso tempo la dimostrazione oggettiva che un altro modello di sistema era possibile, alimentando la lotta e le speranze dei popoli.  Allo stesso modo proprio sulla UE la Sinistra Europea (già dalla sua definizione) sostiene apertamente il processo europeo, parlando della necessità di riforme sostanziali, di una maggiore democrazia e di un compimento del processo di unità politica degli Stati europei. Una posizione illusoria, perché l’Unione Europea nella sua natura non è modificabile: essa nasce con un preciso intento politico-economico tale da rendere impossibile la terza via prospettata dalla sinistra europeista. Al contrario alcuni partiti comunisti europei, KKE in testa hanno iniziato a prospettare una politica molto differente che parte dalla necessità della disarticolazione del quadro della UE, dalla netta condanna della sua natura imperialista e dalla realizzazione di forme di lotta che apertamente tirassero in ballo la UE nelle sue responsabilità “Peoples of Europe rise up”. Per analizzare bene queste differenze è sempre bene dare un occhio alla Grecia. Qui Syriza, partito legato alla sinistra europea, afferma di volere portare avanti un programma riformista in Grecia: con parziale revisione del debito, nazionalizzazione di alcune grandi imprese strategiche, ma contemporaneamente parla di volontà di sostegno alla UE ed il suo leader Tzipras, ha più volte manifestato la sua volontà di sostenere l’Unione Europea, a patto di una parziale revisione del memorandum. La questione è semplice: anche un programma riformista come quello di Tzipras non è attuabile se la Grecia non rompe il meccanismo di legame strutturale con la UE. Quale politica è possibile in questa direzione restano legati a doppio filo alla UE? Nessuna. Ogni governo di questo tipo si troverà di fronte ad una scelta essenziale: da una parte rinunciare al suo programma ed eseguire, sotto forme attenuate, ma eseguire, i dicktat della UE, oppure rifiutare questa imposizione, ma a quel punto il suo atto sarebbe un vero atto rivoluzionario che non potrebbe che vedere la rottura con la UE. Ma Tzipras non vuole questo. Questa è la ragione per cui il KKE ha deciso di non compromettersi in coalizioni con Syriza, perché a prescindere dalla vulgata della “sinistra unita” le differenze sono sostanziali su un punto essenziale di giudizio, tale da rendere impossibile ogni alleanza.  Il KKE sa che pagherà in termini elettorali questa scelta in questo momento, complice anche una copertura mediatica enorme di Tzipras e al contempo continui attacchi alla sua linea politica (“partito della guerra civile” “partito che farà precipitare la Grecia nel caos” ecc) ma sa bene – a differenza di quanto fatto dalla sinistra italiana – che la tattica non può che essere subordinata alla strategia e che per vincere una guerra alle volte è necessario sacrificare una battaglia.

Quale proposta sull’Unione Europea.

Assodato il carattere della UE, tale da non rendere possibile nessuna politica riformista al suo interno è ora da comprendere in modo chiaro quale sia la corretta linea politica rispetto all’Unione Europea. È indubbio che l’uscita di un paese dal quadro dell’Unione Europea, mantenendo l’attuale modello di sistema, non sia un elemento risolutivo della situazione, anzi un caso come questo non porterebbe ad altro che al peggioramento delle condizioni di quel Paese. L’uscita di un paese singolo dalla UE e conseguentemente dalla moneta unica, comporterebbe una fortissima svalutazione monetaria, tale da far precipitare immediatamente il valore dei salari; questa misura colpirebbe per lo più gli strati sociali più bassi della popolazione, atteso che la grande borghesia può riuscire con poco a mettere in sicurezza in valuta straniera o in investimenti sicuri parte rilevante del proprio capitale. L’abbassamento del potere d’acquisto dovuto alla inevitabile svalutazione monetaria comporterebbe nel breve periodo la riduzione drastica di approvvigionamento di beni essenziali. Basti pensare alla tradizionale povertà di materie energetiche dei PIIGS: l’acquisto del petrolio, prezzato in dollari, diventerebbe estremamente oneroso, con l’innesco di una ulteriore spirale di crisi. Al contempo i benefici della svalutazione monetaria (possibilità di aumentare le esportazioni, avvalendosi di un cambio conveniente) sarebbero immediatamente vanificati dall’emergere di barriere doganali, emesse dalla stessa UE, tali da paralizzare qualsiasi esportazione nei confronti del continente.  Il ricorso al credito internazionale sarebbe impossibile o raggiungerebbe livelli di interessi tali da rendere l’usura un piacevole ricordo dei tempi passati. La nostra richiesta non può dunque essere schematizzata con la semplice uscita dall’Unione Europea di un singolo stato, mantenendo intatti i rapporti di produzione di natura capitalistica esistenti. Questa dinamica sarebbe nulla più che l’ultima estorsione ai danni del popolo, che vedrebbe in questo modo la compromissione ulteriore dei suoi diritti e dei suoi interessi, a fronte di un ulteriore arricchimento delle classi dominanti. Essa semmai è una tendenza che in questo momento appare probabile per alcuni paesi, Grecia in testa, ma che è tutta legata alle dinamiche di scontro interno al capitalismo e alla stessa UE. Ma noi non vogliamo questo. Stesso ragionamento può essere fatto sulla questione del debito pubblico: il non pagamento del debito può bastare a cambiare le cose? Certamente il rifiuto assoluto del pagamento del debito – con le uniche eccezioni di piccoli risparmiatori e contributi e pensioni – costituisce un passaggio obbligato e necessario, ma per noi non l’unico e non l’ultimo.  Da questo punto di vista un interessante ed importante contributo d’analisi è venuto proprio dal KKE. La Grecia è in questo momento l’anello debole della catena imperialista e il Partito comunista di Grecia si è trovato per primo ad affrontare e dover analizzare queste ipotesi e condizioni. Prima di tutto relativamente all’euro, il KKE ha affermato chiaramente che l’uscita dalla moneta unica ed il ritorno alla Dracma a queste condizioni, sarebbe per il popolo greco un ulteriore disastro. Così come rispetto alla posizione sull’Unione Europea, fin dal vertice dei Partiti Comunisti di Bruxelles la politica del KKE si è incentrata sulla parola d’ordine della “disarticolazione della UE”. La differenza è chiara e sostanziale: non l’uscita di un singolo paese dall’Unione Europea, ma la disarticolazione di un quadro imperialista; situazione che, stante la diversità oggettiva di ogni Paese ed il diverso grado di sviluppo delle forze politiche rivoluzionarie, non vuol dire ovviamente un unico movimento in questa direzione, ma un processo a tappe di medio termine. Chiaramente dove il processo sia più avanzato la forma della rottura singola di un solo paese, o paesi singoli, è una tappa in questa direzione ineludibile, perché l’alternativa sarebbe l’impossibilità di portare avanti qualsiasi tipo di cambiamento, restando nel quadro della UE. Ma l’obiettivo a lungo termine non ha nulla a che fare con la pretesa di un antistorico ritorno alla sovranità nazionale degli Stati preesistenti, sotto il profilo capitalistico, quanto alla costruzione di un nuovo ordine continentale. È chiaro a questo punto come la necessità di coordinazione a livello continentale, anche per quello che concerne le organizzazioni giovanili sia assolutamente fondamentale. Solo attraverso la disarticolazione del quadro europeo sarà possibile la conquista della sovranità popolare che marcia insieme alla costruzione del socialismo, come processi uniti indissolubilmente. Solo attraverso la fine della UE sarà possibile creare le premesse per la costruzione di un’Europa unita, di paesi e popoli liberi, informata ai principi di solidarietà e giustizia sociale e non di accumulazione del profitto e sfruttamento dell’uomo sull’uomo.


SCUOLA SUPERIORE

Nel quadro della crisi sistemica del capitalismo, è fondamentale per la Gioventù Comunista aver la più ampia comprensione possibile della condizione della scuola, per essere in grado di agire con la massima efficacia in questo ambito fondamentale.
Un’analisi della scuola italiana non può che iniziare con la cosiddetta “riforma Berlinguer”, voluta dal governo di centrosinistra nel 1997. In nome dell’autonomia degli istituti scolastici, veniva portato un primo poderoso attacco contro il diritto all’istruzione conquistato dalla dure lotte del movimento operaio (e talvolta anche studentesco) nel dopoguerra. Da lì, con il ritmo di una riforma (mai in contraddizione con la precedente) a governo è stato portato avanti passo passo un progetto complessivo di inasprimento dei caratteri di classe dell’istruzione. La prima cosa importante da notare è come le politiche sulla scuola siano uno degli aspetti che hanno dimostrato, e continuano a farlo, la continuità e la comunione di intenti di tutti i partiti borghesi e dei loro alleati opportunisti, confermando la sostanziale identità di centrodestra e centrosinistra.
I risultati raggiunti dall’attuale sistema formativo sono sotto gli occhi di tutti. La dispersione scolastica si attesta oltre il 30%. Questo dato aumenta ovviamente nelle zone popolari, alle periferie delle grandi città, nei tecnici e nei professionali. Il meccanismo attraverso il quale è possibile arrivare ad una situazione del genere è da ricercare principalmente nei costi della scuola. Analizziamo le spese che una famiglia deve sostenere per mandare un figlio a scuola.
Con “l’autonomia” introdotta da Berlinguer, è apparsa nelle scuole l’usanza di richiedere un piccolo contributo (“regolamentato” per legge solo dal decreto Bersani del 2007) per la realizzazione di progetti extracurriculari del POF. Contestualmente però la riforma del ’97 cominciò a tagliare i fondi ministeriali e ben presto il contributo perse la sua funzione originaria è inizio a sopperire alla mancanza di fondi. Aumentando ad ogni taglio, il contributo è stato il grimaldello attraverso il quale il sistema è stato capace di annientare i fondi statali alle scuole senza incontrare una reale opposizione, visto che grazie ai soldi ricevuti dalle famiglie i conti degli istituti continuano a risultare in attivo anche senza che un euro arrivi dal ministero. Essendo drasticamente aumentato negli ultimi anni (130 € di media a Roma – vedi inchiesta allegata) a causa dell’accelerazione del processo di smantellamento della scuola pubblica, oggi il contributo è una vera e propria tassa d’iscrizione, in barba al diritto allo studio.
Il costo dei libri, poi, è diventata una di quelle “spese importanti” che una famiglia deve affrontare ogni autunno. I programmi ministeriali di contenimento, totalmente inconsistenti, non hanno per nulla arginato il carolibri. E qui vediamo una prima grande differenziazione di spesa tra istruzione liceale e istruzione tecnico-professionale: iscriversi al primo anno di un liceo classico costa in libri mediamente 300 € di più che ad in istituto professionale.
Passiamo quindi alle spese collaterali. La progressiva riduzione del finanziamento pubblico non permette più alle scuole di fornire materiali e servizi che ora pesano sulle famiglie. Di fronte alla reintroduzione degli esami di riparazione, che possono incidere pesantemente sulla vita scolastica di un ragazzo, le scuole non sono in grado di organizzare i corsi di recupero, e quindi passa tutto per costose ripetizioni private.
Tutto questo viene giustificato ideologicamente con il concetto di “merito”. Si parla di una scuola più rigida, spesso interpretando malamente un sentimento di nostalgia per la bacchetta sulle mani, ma la realtà è ben diversa. In tutte le scuole si registra una sostanziale differenza tra il numero di classi del primo anno (e dunque di studenti) con il numero di classi dell’ultimo anno.
Questo vuol dire che buona parte cambia le sue scelte in corso. Capita molto negli scientifici che cedono facilmente ad altri scientifici o all’istruzione tecnica parte dei loro studenti, capita nei classici, dove tuttavia il fenomeno è molto legato alla stessa tipologia di studi, con il cambio della sola scuola o addirittura, come spesso accade, verso le private. Ma nei tecnici e nei professionali spesso non si cambia scuola, ma si lascia la scuola.
Così appare ridicolo parlare di “merito” quando uno studente di una famiglia agiata può passare ad una scuola privata e ottenere un diploma facile, mentre quello di una famiglia che a stento può permettersi di mandarlo a scuola è costretto a cavarsela da solo e se non ce la fa, ad andare a lavorare.
Ed in questo ambito si inserisce l’infame progetto di finanziamento che sta dietro le prove Invalsi, che mira a creare ancora di più scuola di serie A e scuole di serie B, C, D, ecc. ecc.
La vita di un ragazzo viene di fatto stabilita da una scelta che deve fare con la famiglia a soli 14 anni. Risulta evidente che a liceo (soprattutto al classico) ci va chi se lo può permettere, sia per quanto riguarda le spese che comporta immediatamente sia per quanto riguarda la prospettiva di spesa che comporta l’università, mentre per la stragrande maggioranza si apre solo la porta dell’istruzione tecnico-professionale, con tutto quelle che oggi comporta. E poi ci sono tutti quelli che vengono completamente esclusi dal sistema formativo.
Lungi dal credere che un’ottima istruzione all’interno del sistema capitalistico possa esistere ed essere di massa, la Gioventù Comunista deve essere consapevole del ruolo che un movimento studentesco adeguatamente diretto può giocare in questa fase. L’esempio cileno (con tutte le differenze) dimostra quanto le rivendicazioni degli studenti possano ricevere consenso popolare. Sotto questo profilo riteniamo opportuno stabilire un programma minimo di rivendicazione sulla scuola, che abbia come obiettivo quello di costruire consenso intorno alla nostra organizzazione. A differenza di altre organizzazione (UDS in primis) abbiamo sempre rifiutato di contrapporre alle riforme e all’attuale sistema scolastico proposte organiche di controriforma. Questo perché a nostro parere l’idea stessa di presentare una proposta organica trasmette la falsa coscienza, o forse sarebbe meglio dire illusione, che all’interno di questo sistema ci sia spazio per le riforme. Noi non intendiamo illudere gli studenti indicando l’obiettivo di una scuola bellissima all’interno di questo sistema, perché questa non potrà mai esistere.
Al contrario la definizione di un programma minimo è lo strumento attraverso il quale sviluppare le contraddizioni di questo sistema e aggregare sulla base non di una mera proposta irrealizzabile di riforma, ma sulla consapevolezza che solo la lotta per la costruzione del socialismo può portare risultati.

Questo può essere fatto attraverso i seguenti obbiettivi e campagne.

Obbiettivi:
  • Radicamento di classe nelle scuole, principalmente nei tecnici e nei professionali

Campagne:
  • Richiesta della totale gratuità della scuola pubblica: contemporaneamente lotta al caro libri (sempre sostenendo la necessità della gratuità del libro di testo nelle forme della rinuncia ai diritti delle case editrici); opposizione ai contributi studenteschi coordinando campagne di blocco del contributo nelle scuole, e campagne di propaganda di condanna di un sistema che spinge all’abbandono scolastico e richiesta innalzamento istruzione obbligatoria fino a 18 anni.
  • Ferma opposizione al concetto di “meritocrazia” che all’interno di questo sistema si concreta nella istituzionalizzazione sotto mentite spoglie delle differenze di classe, negando persino i margini di mobilità sociale consentiti con l’istruzione di massa nel dopoguerra. In pratica opposizione alle prove Invalsi, e campagne contro le scuole private, che devono essere prese a simbolo di questo ragionamento.
  • Organizzazione di ripetizioni a prezzi popolari, nelle nostre sedi, come strumento di immediato avvicinamento alla lotta generale.

Si ritiene inoltre necessario attivare un livello di analisi approfondita sulla questione degli stages nell’istruzione tecnica, svelandone la natura di sfruttamento connessa nella maggior parte dei casi con questa forma di istruzione.

UNIVERSITA’

L’università è oggi un enorme bacino di riserva di classe media tendente alla proletarizzazione, o di quelle fasce di proletariato che nella speranza di accesso ad una qualche forma di mobilità sociale si vedono ricondotte nella propria condizione originaria, mutata apparentemente nelle forme, ma rimasta immutata nella sostanza dello sfruttamento.
La parabola storica dello sviluppo post-bellico del capitalismo ha portato con sé un enorme aumento della possibilità di accesso al mondo universitario. Oggi giorno in Italia ci sono circa 2 milioni di studenti universitari,  il quadruplo rispetto a a 50 anni fa, ed il doppio rispetto a 20 anni fa.
La creazione dell’università di massa è un fenomeno dovuto essenzialmente a due cause: da una parte lo sviluppo delle forze produttive, che richiede forme nuove di rapporti sociali, e dall’altra dal confronto quotidiano con il sistema socialista, che innescando continui fattori di competizione, consentiva in occidente meccanismi di maggiore mobilità sociale.
A questo processo di massificazione dell’università ha corrisposto un altrettanto processo di dequalificazione complessiva dell’istruzione universitaria. Se da un lato infatti le condizioni storiche e lo sviluppo delle forze produttive richiedevano un aumento della formazione per larghi settori della società, questo aumento doveva risolversi nell’acquisizione di un maggiore livello di competenza tecnico-specialistica più che in un innalzamento complessivo del livello critico-culturale delle masse.
Una specializzazione e qualificazione sempre più stringente, che scivola sul piano tecnico più che su quello culturale, che fornisce elementi estremamente specifici, ma non consente l’acquisizione di mezzi critici necessari alla comprensione dei meccanismi della società.
A tale livello di qualificazione e specializzazione non consegue tuttavia la presenza di un numero eguale di lavori specializzati per i neo laureati, creando una discrepanza tra numero di laureati e posti di lavoro qualificato disponibile. La crisi economica ha acuito questo processo e dimostrato definitivamente che oggi non esiste alcuna tendenza storica del capitale allo sviluppo cognitivo delle masse.
Ecco perché l’università è oggi prima di tutto un enorme bacino di riserva di classe media tendente alla proletarizzazione; un luogo dove trovare quadri eccellenti per il capitalismo, lasciando fuori la stragrande maggioranza di laureati. Questo processo avviene attraverso un processo di selezione, basato sull’ ideologia della competizione e della meritocrazia nel verso del profitto economico e non del progresso umano ed intellettuale.
Procedendo ad un esame del carattere dell’università si può notare come questa abbia un carattere profondamente ambivalente; lo studente acquisisce le capacità per aumentare lo sviluppo tecnico-teorico del sistema dominante, ma, al tempo stesso, ha a possibilità di  acquisire le capacità intellettuali per comprendere criticamente la realtà, e di conseguenza, le capacità per rovesciare il sistema stesso. 
 Naturalmente le politiche in ambito universitario sono volte allo schiacciamento di questa ambivalenza, rendendo il mondo universitario solo un mezzo di sviluppo per il capitale.
 Ciò avviene tramite la standardizzazione dei processi didattici, volti alle tendenze del mondo del lavoro, impedendo una comprensione critica delle materie e uniformando le menti al pensiero dominante.
 Viene introdotta un’impartizione di un sapere specializzato e tecnico privo di visione critica e di insieme. L’iper specializzazione degli studi crea anche la possibilità di ridurre o addirittura eliminare gli studi umanistici (qualcuno disse “con la cultura non si mangia”) o comunque le conoscenze necessarie per una visione generale d’insieme, creando così intere classi di “tecnici” privi delle capacità critiche per modificare l’esistente ai fini del progresso e non del profitto. Questo meccanismo sta iniziando a essere imposto alla base stessa dell’università, che si trasforma da servizio pubblico ad azienda dominata da logiche di profitto, con la conseguente  aziendalizzazione degli studi e mercificazione della vita dello studente.
In questo contesto lo studio viene visto come l’inizio della carriera economica dell’individuo facendo si che ci sia un investimento economico nel proprio curriculum di studio.
Queste dinamiche non sono tipicamente italiane, ma sono proprie dell’università di tutti i paesi a capitalismo avanzato, e l’idea che questo governo “tecnico” porta con se dell’introduzione dei prestiti di studio o della perdita del valore legale del titolo di studio. 
In questa maniera gli studenti si inizieranno ad assumere un vero e proprio rischio d’impresa sulla propria condizione e la loro vita sarà un ‘eterna rincorsa al pagamento del debito di studio.
L’università è uno degli snodi principali per la costituzione di una gioventù comunista, sia per i mezzi intellettuali che per una questione di contatto con delle masse giovanili che possono provare sulla propria pelle le contraddizioni che il capitalismo ha nel mondo universitario. Quindi è necessario che i compagni che si trovano all’università impostino per essa un percorso politico definito e specifico (come è necessario anche per la realtà del lavoro, delle superiori, ecc.), che non si diversifichi nell’analisi di base o nelle finalità, bensì nella progettualità. In questo senso è essenziale lo sviluppo di un progetto sull’università che includa analisi specifiche, campagne e volantinaggi regolari, e anche una specifica sezione del giornale. Subordinando poi all’analisi generale dell’università un lavoro specifico e territoriale su ogni singola università.
Infine si evidenzia la necessità che i compagni, applichino un metodo critico ed analitico (razionale) a tutti gli aspetti della realtà, in particolar modo nei campi del loro studio, affinché non siano schiavi della vulgata imposta al mondo della didattica dall’ideologia dominante.
Ci si aspetta che i compagni siano onesti intellettuali, e che il loro marxismo non sia solo un’attività legata alla militanza politica ma che essi siano marxisti in tutti gli aspetti del loro comprendere il mondo. Perciò il senso dello studio universitario non deve essere quello di diventare il braccio tecnico del capitale, ma quello di diventare attraverso una comprensione critica della materia studiata, la nuova avanguardia capace di costruire la civiltà nuova e il progresso per l’umanità tutta.

Beni comuni e socialismo.  

Con il referendum sull’acqua, che mirava alla cancellazione di alcune leggi del governo di centrosinistra altre dell’ultimo governo Berlusconi, in materia di privatizzazione dei servizi pubblici e più specificatamente della fornitura dell’acqua, è andata ad affermarsi in Italia l’espressione “beni comuni”. Da molti l’idea dei “beni comuni” è stata vista come una giusta e legittima risposta all’espropriazione compiuta dal neoliberismo, anche di alcuni beni essenziali, come per l’appunto l’acqua. In un panorama di mancanza assoluta di riferimenti, l’idea dei beni comuni ha indubbiamente rappresentato un fattore condiviso ed aggregante di una vasta area politica.
Proprio l’assenza di una corretta analisi ha tuttavia reso la definizione “beni comuni” priva di una comune analisi di fondo, limitandone l’accezione ad una battaglia di retroguardia e resistenza più che a una spinta in avanti verso la conquista di nuove posizioni.
L’idea dell’individuazione di una cerchia di “beni comuni” di per sé compie l’operazione contraria di relegare tutto il resto al rango di “bene privato” o potenzialmente tale, con il risultato che l’intera campagna si è risolta nella rivendicazione del ritorno al pubblico – da ricordare sempre di quale Stato stiamo parlando – di settori prima pubblici e poi privatizzati.
La retorica del “bene comune” ha contagiato tutti, creando facili titoli per iniziative, e un marchio da utilizzare nelle migliori occasioni, fino ad affermazioni come: “le ragioni del comunismo – addirittura secondo Ferrero –non come ideologia, ma come estensione deibeni comuni”.
Le contraddizioni insite nel concetto, o forse meglio sarebbe dire nel non concetto dei beni comuni, sono già molte, ma il punto fondamentale è che con questa operazione di selezione dei beni comuni, si dimentica sempre la più grande forma di espropriazione di un bene all’interno dell’economia capitalistica, che è data dall’estrazione del plusvalore. La questione della riappropriazione del capitale, questa si che avrebbe valore rivoluzionario, non rientra ovviamente nella lista degli obiettivi che devono diventare “beni comuni”. 
Resta così esclusa dalle rivendicazioni la battaglia fondamentale contro l’attuale sistema economico: la questione della riappropriazione del profitto attraverso il passaggio sotto il controllo collettivo dei mezzi di produzione, e la cosa peggiore, è che questa esclusione, comporta espressamente l’accettazione della proprietà privata dei mezzi di produzione e di conseguenza l’accettazione del capitalismo stesso. 

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