domenica 21 agosto 2011

Fumo di Londra


Il complesso terreno comune tra crisi diverse
 di Marco Costa
 
Ad una settimana di distanza dagli accadimenti londinesi, mi pare doveroso proporre una bozza di riflessione che cerchi di inquadrare gli avvenimenti britannici al di là della superficialità con cui tanto i media borghesi quanto certa stampa patinata e perbenista di sinistra hanno sbrigativamente liquidato il fenomeno come mera questione di ordine pubblico impolitico.
Nottate con sirene urlanti, roghi infernali di interi quartieri da Tottenham a Croydon, fiamme incontrollate a negozi, edifici, poliziotti in affanno nei vani inseguimenti di gruppi che capillarmente emergevano e si dileguavano repentinamente nelle strade periferiche, scene di guerriglia e saccheggio che hanno dipinto le nottate di questa estate londinese con i colori di un'apocalisse postmoderna. E poi il solito copione di morti (3 almeno, ma altri 3 a Birmingham paiono legati più o meno direttamente alle stesse dinamiche dei riots), feriti, repressione indiscriminata, stato di assedio e dichiarazione di fatto di un coprifuoco permanente nella capitale e non solo, blindata con almeno 16 mila agenti antisommossa in servizio notturno permanente.
Se il brutale ed ingiustificato assassinio di un giovane pregiudicato di origine giamaicana da parte della polizia londinese – oltretutto, come se non fossero bastati i recenti episodi di discredito della stessa a seguito dell'imbarazzante coinvolgimento dei vertici di Scotland Yard nel Murdochgate con l'accertamento di ripetuti casi di implicazione in fenomeni di costante delazione e corruzione a favore di media bramosi di facili scoop – si è configurato come episodica scintilla, si tratta di scovare l'humus sociale in cui le periferie londinesi hanno costituito il terreno all'accensione di inediti fenomeni di insurrezione in Gran Bretagna, almeno dai moti a sfondo prevalentemente etnico dei primi anni '80, epoca delle famigerate rivolte di Nothing Hill e Brixton, che già allora indicavano un'ingovernabilità totale della società londinese agli albori del tatcherismo e poco prima dei moti operai che strenuamente si opposero per la prima metà dello stesso decennio a quel governo conservatore accanito in una mastodontica opera di riconfigurazione capitalistica, privatistica e reazionaria della società britannica. In effetti le analogie con la geografia urbana, economica e sociale della Londra di tre decenni orsono sarebbero molte; tuttavia, ed è quello che credo sia più interessante da sottolineare in questo passaggio, il movente dei riots attuali nonché il substrato sottoculturale in cui si sono alimentate le rivolte presenta caratteri meravigliosamente indicativi, per larga misura paradigmatici, dell'instabilità delle metropoli nei tempi del capitalismo postmoderno.
Il rapporto diretto tra speculazioni finanziarie ed impoverimento delle classi sociali più emarginate delle periferie (pauperizzazione del proletariato e proletarizzazione del ceto medio, avrebbe detto Marx), tra politiche economiche di lassaiz faire e nichilistica disperazione giovanile, pare sia stato timidamente scomodato anche dall'opposizione laburista di Ed Millbrand; e se i tabloid conservatori invocano tolleranza zero e plaudono alla ventata reazionaria di una polizia affaccendata nel ricorrere alle maniere forti, anche a larga parte dell'opinione pubblica labour pare naturale interrogarsi sul fallimentare dispositivo di desolazione economica ed educativa in cui il fenomeno del ribellismo giovanile ha attinto per decenni silenziosamente, covando sotterraneamente un potenziale rivoltoso che ha stupito solo i più ingenui, comunque del tutto ignari della costante commistione nella periferia dura di Londra di sottoculture, ribellismo giovanile e connivenze – cercate o obbligate – con ambienti delle gang malavitose.

Ma ammettiamolo, a scanso di equivoci: anche larga parte dei gruppi politicizzati della sinistra radicale inglese, da quel che mi pare di capire, abbondano di analisi rivoluzionarie un po' forzate; ne è un esempio, tra i tanti, l'acceso dibattito tra i compagni del SWP (Socialist Workers Party, di estrazione operaista-trotskista) e i compagni del CPGB (Communist Party of Grait Britain, terzinternazionalista), affaccendati in una controversia infinita nel tentativo di scorgere e fare decantare improbabili elementi rivoluzionari in occasione delle recenti sommosse che ben presto dalla capitale si sono allargate a macchia d'olio anche alle città di Birmingham, Nottingham, Liverpool e Manchester che, guarda caso, presentano nelle periferie più o meno analogamente lo stesso quadro di emarginazione, povertà, precarietà, atomizzazione e rifugio comunitario nelle flebili – almeno di fronte all'ondata della globalizzazione neoliberista – identità etniche. Insomma credo che anche questa volta, come in occasione di altre sommosse urbane recenti (si pensi alle banlieu francesi), le varie voci che salutano l'avanguardia della rivoluzione sociale prossima ventura (come appunto fanno i compagni dell'SWP) o quelle che rimandano ad una successiva educazione leninista della classica riottosità lumpen dei sobborghi spoliticizzati (come più o meno scolasticamente fanno i compagni del CPGB) siano letture legittime ma a cui sfugge forse il carattere scivoloso, poliedrico e contraddittorio della rivolta giovanile inglese.
La rapidità e la destrezza con cui la protesta per l'uccisione da parte della polizia del giovane Mark Duggan si è trasformata in una cronaca di saccheggi, incendi e vandalismo estraneo ad ogni ordine simbolico e rituale delle ribellioni classiche (basti ricordare le moltitudini di studenti che anche con metodi e rivendicazioni radicali si erano appropriate delle strade londinesi nello scorso inverno contro i vergognosi tagli all'istruzione perpetrati da parte del governo Cameron), suggerendoci semmai un tipo di sommossa che si beffa di ogni analisi categoriale, delle letture, delle sovrastrutture politiche e semiotiche a cui certa sinistra pseudomarxista troppo scolasticamente si è abituata.
Mi pare che più che ai testi rivoluzionari, questi fenomeni vadano inquadrati con le categorie del tribalismo postomoderno di cui parla il semiologo francese Michael Maffessoli, in cui sulla ceneri di una modernità sgretolata in ognuno dei suoi sistemi valoriali con pretese universalistiche, l'atomizzazione sociale induce solamente a rimodulazioni comunitarie orientate alla provvisorietà degli scopi (siano essi valoriali ed identitari o volti al saccheggio di un Apple Store alla caccia proprio di quelle icone che il totalitarismo consumistico fa apparire come necessarie ed includenti), o alla modernità liquida descritta da Baumann quando si fa cenno alla disintegrazione dei tessuti urbani e sociali negli spazi metropolitani contemporanei; ma certamente anche alla precarietà esistenziale di cui ci ha parlato magistralmente il sociologo Richard Sennet, come prodotto ultimo dell'abbandono dell'uomo ai tempi del turbocapitalismo in cui l'unico orizzonte è quello infinitesimale e diacronico, scandito unicamente dal tempo di produzione precaria ed anelito quotidiano al consumo bulimico di beni.

Si tratta quindi di gruppi fluidi, e chi ha frequentato Londra è fin troppo abituato alla cronaca quotidiana di omicidi, aggressioni fratricide e criminalità che hanno per protagonisti abituali gli adolescenti della città. Come in un vorticoso movimento, sfaccendati, precari, spesso segnati da un inquietante agnosticismo ideologico, educativo e valoriale, gli adolescenti delle metropoli occidentali postmoderne battono schizofrenicamente le strade metropolitane ostentando l'iconografia del loro abbigliamento griffato, assorbendo le contraddizioni di un'intera metropoli, di un intero modello sociale.
Quando l'inquietudine trova la scintilla, trova il pretesto e l'occasione per tramutarsi in disordine, per strappare il velo della realtà, ecco che l'evento insurrezionale assume forme simili ad un flash-mob, puro happening di rabbia del tutto e subito, dello sfogo febbrile frammisto di disperazione esistenziale di chi non ha nulla da perdere, del rito anarcoide e liberatorio in cui la legge del più forte, la stessa che il capitalismo ammanta nelle sue istituzioni, non è più lo scompaginamento dei valori istituzionali quanto il suo più estremo e spettacolare compimento.
Di fronte agli scricchiolii finanziari del sistema occidentale, in cui la finanza ha inventato ricchezze fittizie (i subprime) piazzando ai risparmiatori azioni farlocche finalizzate alla copertura di debiti individuali e statali quali dilazionamento della ricattabilità dei lavoratori (nella loro triplice veste anche di consumatori e risparmiatori), in cui i governi (come gli inglesi, appunto) bombardano popolazioni inermi sui 3 continenti in modo sistematico nella speranza di allargare approvvigionamenti di materie prime e di decomprimere la stagnazione economica nell'assurdità di una crisi economica in cui le lobby si ostinano a sperare di curarne gli effetti con le cause stesse che l’anno generata (sovrapproduzione/sottoconsumo,  divaricazione sociale, precarizzazione contrattuale, privatizzazione dei beni e del welfare, finanziarizzazione, deindustrializzazione), i ragazzi londinesi hanno trovato appagante – più o meno consciamente – reagire in modo tanto tribale quanto diretto, saccheggiando e spaccando tutto. Non facendo altro che quello che l'uomo occidentale ha altrettanto più o meno inconsciamente somatizzato da tempo nelle sue elite dominanti su scala planetaria.
Croydon brucia, contemporaneamente le borse planetarie crollano: in questo tratteggio apocalittico, il fatto che questi ragazzi siano condannabili dalla falsa coscienza conservatrice o che abbiano qualche reminiscenza politica o che sia solo una lauta ed inaspettata occasione di saccheggio mi pare un elemento, paradossalmente, secondario. Ken Livingstone, rimpianto ex sindaco laburista della capitale inglese, dice pubblicamente che questi ragazzi “semplicemente non pensano di fare parte di questa società”. Arduo davvero, anzi epocale, porsi il quesito se il sommo errore, oggi, sia quello di chi ritiene di non fare parte di questa società o quello di chi ritiene che questa società sia solo la somma nebulosa di individualità atomizzate giunta al capolinea nel suo tentativo di consolidare in occidente ed esportare altrove il totalitarismo consumistico, oltretutto con basi economiche platealmente fallimentari.
Ma da comunisti non possiamo certo crogiolarci sterilmente nella fine di un'epoca; dobbiamo arricchire la progettualità per l'epoca futura che già ci attende.

sabato 13 agosto 2011

Por Fidel Y la Revolucion!

L’attacco alla Moncada ci ha insegnato a trasformare le sconfitte in vittorie. Non fu l’unica amara prova delle avversità, ma nessuna riuscì a contenere la lotta vittoriosa del nostro popolo. Trincee di idee furono più potenti delle trincee di pietra.”
Fidel Castro, 26 luglio 1973
Fideltà 
di Plata

Dal 16 al 19 aprile si è tenuto a L’Havana il VI Congresso del Partito Comunista di Cuba, fatto idealmente coincidere con la Proclamazione del carattere Socialista della Rivoluzione e con le celebrazioni dei 50 anni dalla Vittoria di Playa Girón. Si è trattato di un Congresso fondamentale per il futuro del Paese, stretto tra la perdurante crisi economica mondiale e la continua aggressione da parte del potente vicino, gli Stati Uniti d’America.
Gli squilibri globali e la conseguente instabilità delle valute hanno comportato un forte calo delle esportazioni da Cuba ed un aumento dei prezzi delle merci importate, a loro volta in diminuzione. Ciò ha causato un arresto della crescita del Pil, che solo nel 2006 si attestava attorno al 12%, crollato a livelli decisamente bassi: dal 2009 ad oggi infatti il tasso di crescita è solamente del 1,5%, che per molti paesi capitalisti della vecchia Europa rappresenterebbe al contrario un grande risultato. Proprio per superare questa situazione che ha origine dalla più profonda crisi che il sistema capitalista abbia mai affrontato ( e che stanno pagando a carissimo prezzo tutti i lavoratori, gli studenti, i pensionati e i disoccupati ), Cuba ha dovuto mettere in atto un processo di critica e autocritica molto duro ma onesto: lo stimolo all’economia socialista, in questo determinato momento, non poteva più provenire dall’interno ma dall’afflusso di capitali esteri, esattamente come accade nella maggior parte degli altri stati socialisti ( Cina e Vietnam in primis ) e come fu costretto a fare il primo paese socialista della storia, l’URSS nel 1924. Tutto ciò per poter aumentare la competitività interna, accresce il dinamismo del sistema e creare nuovi posti di lavoro, nonostante il tasso di disoccupazione sia in realtà bassissimo. Ma è chiaro come a Cuba, anche una percentuale così bassa (stiamo infatti parlando di un tasso di disoccupazione che si attesta attorno al 2%) non possa considerarsi un successo e come gli sforzi del governo si concentrino anche in questa direzione.
Secondo la maggior parte dei giornalisti, degli economisti, degli opinionisti occidentali, il destino di Cuba sarebbe ineluttabilmente scritto. Cos’altro possono rappresentare le recenti aperture di Raul Castro e del PCC al mercato? Altro non sarebbero che la continuazione politica della direzione intrapresa all’inizio del “periodo especial” nel 1990: tagli alla spesa pubblica, un minor ruolo dello stato nell’economia, maggiore libertà di iniziativa economica e apertura ai capitali provenienti dall’estero. Il modello di “sviluppo” capitalistico, introdotto sull’isola dall’enorme afflusso di turisti, rappresenterebbe uno stimolo inarrestabile soprattutto per le giovani generazioni attratte dal consumismo e dalle “libertà” occidentali.
L’originalità non è decisamente il punto di forza di costoro: dal 1959 infatti, Cuba e la sua Rivoluzione sarebbero già dovuti crollare sotto il peso della dittatura e della povertà. Il primo di questi “profeti” fu proprio l’uomo degli Stati Uniti a Cuba, il dittatore Fulgencio Batista:
“Fidel Castro rimarrà al potere al massimo per un anno.”
Fidel compie oggi 85 anni, la maggior parte dei quali spesi per Cuba e il suo popolo. Uno dei più carismatici e intelligenti uomini politici che la storia moderna ci abbia consegnato: insieme a rivoluzionari del calibro e della grandezza di Guevara e Cienfeguos ha aiutato la sua gente a liberarsi dal giogo imperialista. Ha difeso la nascente nazione cubana dagli attacchi militari ed economici di chi vedeva un pericolo costante, una minaccia mondiale, nella voglia di autodeterminazione e indipendenza di questa isola caraibica. Alfiere delle libertà delle popolazioni oppresse dell’America latina così come di quelle africane e asiatiche, stritolate dal capitalismo assassino, e sostenitore di ogni movimento rivoluzionario. Così ne parla Nelson Mandela:
"Fidel Castro è uno dei miei migliori amici. Sono orgoglioso di essere tra coloro che sostengono il diritto dei cubani di scegliere il proprio destino. [..]      I cubani ci ha dato le risorse finanziare e la formazione per combattere e vincere. Io sono una persona leale e mai dimenticherò che nei momenti più bui del nostro paese nella lotta contro l'apartheid, Fidel Castro è stato dalla nostra parte. "
Leader Maximo di un piccolo Stato, fondato sul Poder popular, sulla democrazia partecipativa di tutti i cittadini a prescindere da sesso,razza,religione,censo o appartenenza politica. In cui la sanità e l’istruzione non sono privilegio di pochi, ma diritto di tutti: ovviamente gratuite e con elevatissimi livelli di qualità, riconosciuti in tutto il mondo. Leader di un Paese in cui i problemi non mancano, senza dubbio, ma dove il processo rivoluzionario ha insegnato ad affrontarli con coraggio e onestà. Rivolto agli studenti disse:
“ Essi (gli Stati Uniti,ndr) non potranno mai distruggerci. Ma questo Paese si può auto-distruggere..noi possiamo distruggere noi stessi, e sarebbe soltanto colpa nostra.”
Militante del Partito Comunista Cubano e soldato delle idee, come si ama definire, continua con la sua penna e la sua intelligenza a mettere a nudo le ipocrisie e le barbarie del sistema capitalista, nella durissima e continua battaglia delle idee. Battaglia dalla quale il compagno Fidel non si è mai ritirato, nemmeno nei momenti più difficili. Come diceva Bouteflika, Fidel viaggia verso il futuro, torna indietro e ce lo spiega.
“E’ davvero sorprendente che sistema di merda sia il capitalismo, che non può garantire al suo stesso popolo un posto di lavoro, non può garantire la salute, l'istruzione adeguata, che non può evitare di rovinare i giovani con la droga, con il gioco e con i vizi di ogni genere. "
Viva Fidel!
Viva la Revolucion cubana!
Hasta la Victoria! Siempre!

mercoledì 3 agosto 2011

Siamo tornati!


« Fino a quando i fascisti continueranno a bruciare le case del popolo, case sacre ai lavoratori, fino a quando i fascisti assassineranno i fratelli operai, fino a quando continueranno la guerra fratricida gli Arditi d'Italia non potranno con loro aver nulla di comune. Un solco profondo di sangue e di macerie fumanti divide fascisti e Arditi. »


« ...Ben lontani dal patriottardo pescicanismo, fieri del nostro orgoglio di razza, consci che la nostra Patria è ovunque siano popoli oppressi: operai, masse lavoratrici, Arditi d'Italia: a noi! »