giovedì 8 marzo 2012

Donne sull’orlo di una crisi economica


di Giulia Paltrinieri e Chiara Morgottivolantino8marz

La recente depressione economica, la chiusura di molti stabilimenti lavorativi, la continua erosione delle strutture del welfare nell’ultimo decennio, la generalizzata precarizzazione del lavoro e l’aumento del costo della vita portano nuovamente agli occhi di tutti, alla vigilia dell’8 Marzo, la condizione di perpetrante disparità tra uomo e donna.

Dunque, soprattutto in un periodo come questo non possiamo sottovalutare il problema della maggiore esposizione del genere femminile agli effetti della crisi nascondendoci dietro alle storiche conquiste dei movimenti femministi a partire dagli anni ‘70 del Novecento come il referendum sul divorzio (1974), il referendum sull'aborto e l’abolizione delle disposizioni sul delitto d'onore del 1981. Dobbiamo ricordare sempre che ci sono state donne che hanno lottato duramente per ottenere quei diritti che talvolta si considerano scontati e che devono essere ancora oggi, e a maggior ragione, difesi. Ma innalzare la bandiera delle conquiste sociali degli anni ’70 non basta, se no ci si accorge che in realtà oggi la figura della donna viene quotidianamente offesa e mutilata.

Infatti, è nei momenti di maggior disattenzione dell’opinione pubblica e di allontanamento sfiduciato dalla politica che i diritti tendono a vacillare, a rischio soprattutto dei soggetti da sempre meno tutelati.

Esemplare il caso dell’azienda Inzago in Lombardia costretta dalla crisi a tagli del personale e a quattro anni di cassa integrazione: il personale “scelto” per entrare in mobilità prima, e essere licenziato poi, è interamente di sesso femminile. I padroni dell’azienda per di più giustificano tale scelta sostenendo che è meglio per le donne tornare al “focolare”, dedicandosi al lavoro di cura (di casa, famiglia, bambini), a loro più adatto che il lavoro in fabbrica. Inoltre, a loro dire, il lavoro delle donne costituisce solo il “secondo stipendio” e il loro licenziamento dunque è meno grave per la sorte della famiglia che quello dell’uomo di casa. Non dimentichiamo poi il discusso caso dell’OMSA di Faenza e dei suoi 240 dipendenti che tra pochi giorni vedranno scadere la cassa integrazione e si avvieranno verso il licenziamento: la maggioranza di questi sono lavoratrici donne.

In secondo luogo ricordiamo il diffuso fenomeno delle cosiddette dimissioni in bianco: la lettera che tante lavoratrici si trovano davanti nel momento in cui si dimettono (in)volontariamente e su cui non è apposta alcuna data. Nel nostro paese vi è stato un tentativo di limitare tale fenomeno ricattatorio con una legge, la n°188, la quale prevedeva un sistema di moduli d’assunzione numerati in maniera progressiva e validi per un periodo limitato di tempo. L’ex ministro del lavoro Sacconi non ha esitato un attimo ad abolire tale legge e da quel momento le dimissioni di lavoratrici non hanno fatto che aumentare, specialmente in concomitanza con la maternità e, nel caso di lavoratrici precarie, appena prima del raggiungimento dei requisiti utili per il rinnovo contrattuale. Lo stesso ministro Fornero, pur dichiarandosi incline alla risoluzione di tale problema, si mostra dubbioso nei confronti del ripristino della 188. Per le donne, dunque è ancora difficoltoso il diritto ad entrare in maternità senza incorrere in licenziamenti e differenziazioni nell’avanzamento di carriera ma, sul versante opposto, risulta allo stesso modo problematica anche la possibilità di usufruire pienamente ed in libertà delle disposizioni contenute nella legge 194. Il nostro paese infatti mostra un numero esorbitante di obiettori di coscienza tale che spesso è impossibile per una donna interrompere una gravidanza indesiderata senza recarsi addirittura in altre paesi o province. In tal modo viene leso il diritto costituzionale alla libertà di scelta sul proprio corpo. Il 70,7% dei ginecologi italiani attivi in strutture pubbliche che effettuano l’interruzione volontaria di gravidanza è obiettore di coscienza. Con punte del 92,6% in Basilicata e dell’80,5% del Veneto. Quasi in tutte le regioni italiane il numero dei ginecologi obiettori è maggiore rispetto a quello dei colleghi che effettuano gli aborti. Per non parlare poi della diffusa avversione nei confronti della “pillola del giorno dopo”, dell’ostracismo politico verso la legalizzazione della pillola abortiva ( RU 486) , della disinformazione riguardo l’uso dei contraccettivi e della massiccia presenza di volontariato e associazionismo cattolico all’interno dei consultori avente l’effetto di orientare ideologicamente la scelta della donna nel momento di maggior fragilità. Pensiamo poi al fatto che per arginare il fenomeno della disparità nell’accesso alla politica delle donne e nella loro rara presenza in posizioni di rilievo, si sia dovuti ricorrere ad un provvedimento come quello delle “quote rosa”, il quale prevede la presenza obbligatoria del genere femminile nella misura di 1/5 dei membri delle società o aziende a partecipazione pubblica (comunque ancora lontana da una reale parità!). Questo intervento, pur avendo l’intento di favorire la partecipazione delle donne ai vertici del paese, pare in realtà sottintendere ancora una non effettiva parificazione tra i due sessi: sembra quasi che, a questo punto, la donna faccia carriera non per un reale merito ma per un obbligo imposto dall’alto.

Come poi non fare riferimento all’umiliazione e alla costante “prostituzione” del corpo femminile che avviene ogni giorno sotto gli occhi di tutti e della quale molti sembrano non accorgersi nemmeno? Se le donne riescono raramente e con estenuante fatica a raggiungere una qualche visibilità sul mondo del lavoro e nella vita politica, non si può certo dire la stessa cosa per quanto riguarda il mondo della televisione e della pubblicità! Sembra non esistere cartellone promozionale, pagina di rotocalco, talk show o quiz delle reti commerciali nella quale la donna valga più della crema per il viso che sponsorizza o dell’arredamento decorativo del conduttore di turno, in un ostentazione del corpo e della nudità della donna quanto mai offensiva e degradante.

In questo quadro generale dell’attuale situazione di disparità di genere nel nostro paese ci sembra corretto soffermare l’attenzione anche su un fenomeno destinato ad una crescente espansione. Come noto, in tutto il mondo, le donne che hanno subito mutilazioni genitali femminili sono 130 milioni circa. La pratica delle mutilazioni rappresenta una grave violazione dei diritti umani delle donne e delle bambine. Essa viola il diritto all'integrità fisica e psicologica, a essere libere da ogni forma di discriminazione o violenza e di trattamento crudele e disumano. Viola i diritti dell'infanzia e, in casi estremi, il diritto alla vita. Questo è un problema che inizia ad interessare il nostro paese dal momento che, sempre più spesso, si stanno presentando casi di bambine nate in Italia ma sottoposte a tale intervento nella terra d’origine della famiglia. Pur essendo la mutilazione genitale femminile ritenuta un reato, il tribunale di Milano, ad esempio, ha condannato a soli due anni il padre egiziano che, senza il consenso materno, ha sottoposto in Egitto la figlia a escissione. In Piemonte una bambina sottoposta dai genitori a mutilazione genitale in una clinica nigeriana è stata addirittura reintegrata in famiglia alla quale è stata riconosciuta l’idoneità ad occuparsene. Da questi esempi risulta evidente che tali provvedimenti non bastano. Il nostro paese dovrebbe prendere una posizione più incisiva a riguardo e non liquidare tale fenomeno come espressione di un diritto culturale e legittimarlo in quanto “credenza religiosa” di altri, se è vero che non la cultura in sé ma in quanto scelta da un individuo in grado di decidere è un bene meritevole di tutela (Nussbaum). Stesso discorso vale per i matrimoni combinati tra ragazze nate in Italia con giovani sconosciuti del paese originario della famiglia, se la volontà della futura sposa è contraria a quella dei genitori. Da anni associazioni come Amnesty International o Emergency chiedono all’Unione Europea un impegno forte per porre fine alle mutilazioni e, nonostante i tentativi dell’Unione sembrino essere poco coerenti e strutturati, un qualche piccolo risultato è stato ottenuto con la Convenzione del Consiglio d’Europa per prevenire e combattere la violenza contro le donne e la violenza domestica. L’Italia non ha ancora firmato la Convenzione. Cecile Greboval, direttrice dell'European Women's Lobby a riguardo afferma: "Porre fine a tutte le forme di violenza contro le donne, comprese le mutilazioni dei genitali femminili, dev'essere una priorità, specialmente in tempi di crisi. Sappiamo che l'Unione europea potrebbe avere gli strumenti per far cessare la violenza contro le donne e sviluppare una strategia che garantisca a tutte le donne il diritto di vivere libere dalla violenza. Allora, cosa stiamo aspettando?".

Questa crisi ed il sistema che l’ha generata ci insegnano dunque che le lavoratrici subiscono gli effetti della depressione economica e sociale in maniera maggiore rispetto agli uomini: le donne vengono a parità di mansioni pagate meno, le donne sono mantenute più a lungo precarie, le donne fanno più difficilmente carriera rispetto ai loro colleghi maschi. Il modello consumistico occidentale non fa che ridurre la donna da soggetto a oggetto. E quando parliamo di consumismo, parliamo necessariamente anche di capitalismo. Parliamo di un sistema dove il profitto sta sempre al primo posto, a costo di calpestare i diritti dei lavoratori e soprattutto delle lavoratrici. Parliamo di un sistema che non è soltanto “modo di produzione” ma anche veicolo di istituzioni e valori come patriarcato e familismo. Affrontare la questione femminile significa innanzitutto affrontare i problemi insiti nella struttura economica del sistema capitalista. Sentiamo dunque l’esigenza di una presa di coscienza collettiva delle donne perché pensiamo sia possibile una trasformazione della società e della politica a partire dalla soggettività femminile come primo passo verso una “rivoluzione più lunga”. Perché un’emancipazione reale della donna può realizzarsi solo attraverso un cambiamento strutturale che porti alla realizzazione di un sistema fondato sull’uguaglianza e sulla cooperazione economica e sociale.

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