sabato 10 novembre 2012

Criminalità organizzata e insostenibilità del sistema.

Organizzati, difendi, conquista il tuo avvenire!


Sono nove gli autocarri dati alle fiamme, nella notte tra martedì e mercoledì, a Reggiolo in un’area agricola di via Aurelia. I mezzi appartenevano ad un’azienda di proprietà dell’imprenditore cutrese Domenico Bonifazio, che si occupa di autotrasporto di inerti proprio qui a Reggio Emilia. Un incendio doloso che purtroppo richiama i caratteri e le modalità dell’intimidazione mafiosa, come sottolinea il fatto che si sta occupando dell’accaduto anche la Dda (Direzione distrettuale antimafia) di Bologna.
La comunità reggiolese reagisce e, insieme all’Alleanza reggiana per una società senza mafie, si mobilita da subito con un presidio per la legalità che si è tenuto in piazza a Reggiolo qualche giorno dopo.

Noi sosteniamo l’iniziativa, condanniamo gli atti intimidatori della notte scorsa e siamo presenti ogni qual volta ci sia da parte della comunità reggiana la volontà di contrastare la presenza e la violenza delle infilitrazioni malavitose sul nostro territorio. Ma sosteniamo anche che questo non è abbastanza.

Nell’immediato sit-in, presidi, incontri pubblici dove si proclama la lotta senza quartiere alla mafia ma, appena i riflettori si spengono, gli assessori e i sindaci sembrano quasi scomparire invocando la mobilitazione di una fumosa quanto imprecisata “società civile”. Nonostante i bei discorsi da campagna elettorale, sono mancate azioni forti e decreti diretti per allontanare i clan dalle attività commerciali, dal gioco d’azzardo e dalle slot machine, dall’edilizia e dal sistema politico elettorale, condannando così i cittadini ad una doppia beffa.

Oltre allo sfruttamento quotidiano nei posti di lavoro, alla precarietà, alla disoccupazione, al dilagare di povertà e piaghe sociali come il gioco d’azzardo sì aggiunge anche la criminalità organizzata: i primi a farne le spese sono quei piccoli imprenditori locali che non riescono più a competere con i “nuovi arrivati” causando in questo modo la disgregazione di un intero tessuto produttivo e aggravando la crisi economica di questo sistema economico-sociale.
Politica locale, cooperative e imprese senza macchia che ospitano nei loro cantieri presenze criminali, che “sanno e non sanno” e con inconsapevolezza e nell’indifferenza accettano le modalità mafiose e le avvallano.*
La lotta alla criminalità organizzata parte dall’azione di ogni singolo cittadino responsabile e onesto, questo è certo. Ma è soprattutto una lotta politica che deve essere portata avanti dall’intero territorio e da tutte le amministrazioni. Specialmente oggi, in cui è fondamentale controllare con trasparenza l’opera di “ricostruzione” nei comuni colpiti dal terremoto, per evitare che possa verificarsi ciò che è accaduto in Irpinia e pochi anni fa all’Aquila.

Perchè ogni volta che una cooperativa svende i diritti dei propri lavoratori al miglior offerente e ogni volta che distoglie lo sguardo sacrificando la responsabilità sociale d’impresa in nome del massimo profitto,è quello che rimane della storia di solidarietà e responsabilità civile della nostra terra, della nostra “Emilia rossa” di resistenza, a bruciare insieme agli autoarticolati di Domenico Bonifazio.





* Per un approfondimento della questione consigliamo il libro di Giovanni Tizian, da cui abbiamo preso queste informazioni, dal titolo “Gotica, ‘Ndrangheta, mafia e camorra oltrepassano la linea.” Abbiamo aderito da subito, inoltre, alla campagna “Io mi chiamo Giovanni Tizian” in solidarietà all’autore messo nel mirino dalla criminalità organizzata.

domenica 17 giugno 2012

E' nato il Fronte della Gioventù Comunista



Pubblichiamo di seguito i documenti approvati all’assemblea del 9 e 10 giugno a Roma, per la costruzione del «Fronte della Gioventù Comunista» Read more »

lunedì 21 maggio 2012

E’ ORA DI ORGANIZZARSI

Appello di Senza Tregua per la costruzione della Gioventù Comunista. Per chiunque volesse aderire

collettivosenzatregua@hotmail.it.

La crisi del sistema capitalistico è appena iniziata. Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna ed Italia; non sono un elenco di paesi, ma delle tappe di un processo in cui il capitalismo finanziario e i grandi monopòli porteranno l’attacco a ciò che rimane dei diritti e delle tutele conquistate dal movimento operaio e dalle lotte del secolo scorso. È un processo in cui siamo già immersi, ma che conoscerà un’accelerazione impressionante nei prossimi mesi. Mai come oggi le ragioni delle nostre idee sono attuali. A vent’anni di distanza dalla caduta dell’Unione Sovietica e del socialismo nei paesi dell’est Europa, mai come oggi vale lo slogan: “socialismo o barbarie”.

In questo processo la condizione dei giovani lavoratori, degli studenti, degli universitari, dei sempre più giovani disoccupati è la testimonianza diretta del fallimento storico del capitalismo. Le lotte sociali scoppiate, spesso con forza – basta pensare al 14 dicembre e al 15 ottobre a Roma – sono il sintomo della presenza di un conflitto latente pronto a scoppiare in tutta la sua forza, in modo spontaneo e frammentario. Nostro dovere è oggi dare una prospettiva concreta a queste lotte.  Incanalare la forza espressa da centinaia di migliaia di giovani in un progetto politico duraturo, che si ponga come obiettivo chiaro la fine del sistema capitalistico.

Per fare questo abbiamo solo un’arma: l’organizzazione.

Come “Senza Tregua” in questi anni abbiamo raggiunto obiettivi importanti. Non era scontato riuscire ad aggregare così tanti giovani, combattendo giorno dopo giorno la propaganda anticomunista diffusa per venti anni. Importanti risultati sono stati conseguiti sul piano della lotta, nell’acquisizione della coscienza della stretta connessione tra le lotte di ogni giorno e la prospettiva del cambiamento di sistema, e persino a livello elettorale nelle elezioni per la consulta provinciale. Ma siamo anche ben coscienti dei nostri limiti, e della enorme sproporzione che esiste tra il nostro nemico e noi, della necessità in Italia della creazione e dello sviluppo di un Partito Comunista forte e radicato, che abbia un chiaro fine rivoluzionario, e siamo consapevoli che abbiamo il dovere di fronte alla storia di compiere oggi un passo importante.

Facciamo appello a tutti i compagni, ai collettivi, alle associazioni, con cui in questi anni abbiamo condotto battaglie comuni, a tutti i giovani militanti comunisti, perché insieme si avvii il processo di costruzione della gioventù comunista, organizzazione di classe dei giovani lavoratori, degli studenti, degli universitari dei giovani senza lavoro, il cui obiettivo dichiarato sarà organizzare i giovani per combattere il capitalismo. Vogliamo un’organizzazione radicata nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle facoltà, per portare la lotta al centro della società, presente sui territori per contrastare con forza l’illusione che il fascismo diffonde nei nostri quartieri. Immaginiamo una struttura autonoma, che si confronti con pari dignità con i processi di costruzione del Partito Comunista in Italia. In questo percorso, noi partiremo dai giovani, che oggi più di tutti soffrono lo schiacciamento imposto dal capitalismo. La nostra precisa scelta è quella di non presentare un documento politico in questo appello, ma di lavorare alla redazione di un’analisi complessiva con tutti i compagni che intenderanno partecipare a questo percorso. Ci limitiamo ad alcuni “paletti” che a nostro parere sono essenziali per capire la natura dell’organizzazione che vogliamo costruire:

-       lo spazio per illusioni riformiste è definitivamente caduto. Nell’attuale fase il capitalismo si mostra nella sua vera natura predatoria, riprendendo con gli interessi quanto aveva concesso nel dopoguerra, quando lo spettro dell’Unione Sovietica, era la consapevolezza quotidiana di poter perdere tutto. Oggi la Gioventù Comunista dovrà fare proprio un programma dichiaratamente rivoluzionario, che rompa senza indugio con ogni forma di alleanza con organizzazioni e partiti politici compromessi con l’attuale sistema economico e politico, anche a livello dei rispettivi movimenti giovanili;

-       la contrarietà all’Unione Europea, e la lotta per la conquista della sovranità popolare sono fattori fondamentali in questa fase, che abbiamo il dovere storico di non lasciare al populismo reazionario fascista e ai movimenti di estrema destra. L’UE non ha nulla a che vedere con la nostra visione internazionalista. Essa è al contrario un’organizzazione imperialista, nata sulla base di precisi interessi economici, che impone questi interessi anche a costo dell’utilizzo delle armi. L’Unione Europea non può essere riformata, solo la disarticolazione della UE, e di tutto ciò che rappresenta, è il presupposto per la creazione di un’Europa unita e socialista;

-       Il riconoscimento del marxismo-leninismo come “cassetta degli attrezzi” indispensabile per una corretta lettura della società e per una corretta azione nella direzione del cambiamento rivoluzionario.

-       Il rifiuto di ogni guerra imperialista, nello specifico di quelle che sono in preparazione contro Siria ed Iran, ed il sostegno all’esperienza dei paesi socialisti, Cuba in primis, contro l’imperialismo capitalista.

Su tutto il resto siamo pronti a discutere, convinti che in questa fase sia necessario limare il più possibile le differenze tra chi condivide questo programma di massima, fare sintesi e discutere, senza escludere a priori qualsiasi tipo di discussione.  Per questo invitiamo i compagni interessati a contattarci, per costruire insieme una grande assemblea di discussione a Roma nel mese di giugno, che dia l’avvio al processo di costruzione della Gioventù Comunista. Bisogna rompere ogni indugio, rigettare ogni impulso di chiusura, frutto di questi anni di sconfitta; è arrivato il momento di organizzare la nostra lotta.

E ad iniziare non possiamo che essere noi giovani, perché il comunismo è la gioventù del mondo.

Collettivo “Senza Tregua” Roma.

giovedì 3 maggio 2012

II República Española–Regeneracion democratica y manifesto per la III República

di Maria Josè Duran

REGENERACION DEMOCRATICA Y MANIFIESTO POR LA III REPUBLICA ESPAñOLA

Ahora la sociedad se encuentra, de nuevo, en una fase de profundo hartazgo con el (otra vez) sistema caciquil (o de amiguismo) y la presencia de corrupción generaliza en todos los ambientes (político, policial, judicial, empresarial, administrativo, real…).

Se abre la dicotomía de continuar con la Tercera Dictadura, de futuro más que incierto por los costes que está suponiendo a los ciudadanos, o abrir las puertas a la llegada de la Tercera República, dónde la lucha contra la corrupción y la desigualdad social, así como el establecimiento de una democracia real con control popular y el mantenimiento de los derechos sociales sean sus principales banderas. De ser así, esperamos que llegue pronto de forma tan pacífica y festiva como lo hizo la Segunda en 1931.

Nos encontramos en un momento crucial en la historia de España. Una nueva generación, a la que no le tocó firmar una amnesia que dura ya tres décadas, empieza a recuperar la memoria y a plantear lo que entonces no estaba permitido.

Poco a poco, el cuestionamiento de una institución impuesta por el franquismo se hace cada vez más fuerte, a pesar de que nuevas leyes gubernamentales y nuevas decisiones judiciales intenten defender lo que cada vez es más indefendible. La República cobra actualidad y abandona poco a poco el rincón de las utopías para convertirse en una posibilidad cada vez más real.

Estamos convencidos de que los poderes fácticos consideran la República como un probable escenario a medio plazo, y sin duda apostarán por ésta en la medida que le permita mantener sus privilegios. Es por ello que consideramos imprescindible que la ciudadanía asuma el protagonismo en la lucha por la República y lidere un movimiento de regeneración política y social.

Nos manifestamos, por tanto, a favor de todas las iniciativas políticas y ciudadanas de carácter pacifico y democrático a favor de la República, mostrando nuestro apoyo a los Ayuntamientos y cargos públicos que desde el 26 de Julio de 2007 vienen sumándose, a través de sus plenos municipales, a la exigencia de un Proceso Constituyente, y llamamos a los representantes políticos, al mundo académico, científico, de la Universidad, periodístico, cultural, sindical... y a todos los ciudadanos y ciudadanas en general, a hacer suya dicha exigencia. Hacemos un llamamiento a la defensa de la inteligencia y convocamos al pueblo español a la defensa de unos valores que nos permitirán construir un país más libre, más fraternal, más justo y más democrático, que abrirá las puertas a todas las posibilidades creadoras de España en el porvenir.

II República Española – Historia del 14 de abril

di Maria Josè Duran

HISTORIA DEL 14 DE ABRIL

La II República fue un periodo de la historia de España que comenzó el 14 de abril de 1931. Aquel día, muchos habitantes de las principales ciudades del país manifestaron una gran alegría. Ese periodo finalizó por la más cruel experiencia posible entre compatriotas: una guerra civil. La Guerra Civil española (1936-1939) puso fin a la II República y al intento de convertir España en un país moderno y democrático.

El 12 de Abril de 1931, cuando en España reinaba Alfonso XIII, se celebraron unas elecciones municipales que resultarían fundamentales para la historia de España. En ellas, los republicanos y los socialistas obtuvieron buenos resultados en las principales ciudades del país. Alfonso XIII pensó que los españoles no querían que siguiera la monarquía; por eso, se marchó de España y renunció a la corona. Muy poco tiempo después, el 14 de abril de 1931, se proclamaba la República

Hasta la aprobación de la Constitución de 1931 se estableció un gobierno provisional, presidido primero por Alcalá Zamora y luego por Azaña. Con este último se inició una clara laicización del Estado, en tanto se intentaba solucionar el problema campesino (Ley de Reforma Agraria, 1932) y se concedía a Cataluña un estatuto autonómico (1932), en abierta oposición política y económica con la derecha. Los gobernantes republicanos, dotados de un amplio respaldo democrático tras las primeras elecciones parlamentarias, parecían en condiciones de poner en marcha o acelerar muchos de los procesos de modernización política y socioeconómica por los que venían clamando desde hacía décadas las mentes más lúcidas del país: una reforma del sistema representativo, que terminara con las lacras del caciquismo y consolidara un sistema de partidos de masas; un nuevo modelo de Administración civil y militar, que dotara al Estado de mayor eficacia y que, al tiempo, lo descentralizara, abriendo paso a procesos de regionalización y autogobierno; un nuevo marco de relaciones laborales, que mejorara las condiciones angustiosas de gran parte de la población asalariada; una reforma agraria, que satisficiera las demandas de tierra del campesinado y facilitara la racionalización de la agricultura; procesos de secularización, que pusieran fin al tradicional contubernio entre la Iglesia católica y el Estado monárquico.

La intentona insurreccionista de Sanjurjo (agosto de 1932) fracasó. La victoria de la derecha en las elecciones legislativas de noviembre de 1933 marcó un total retroceso en las reformas que se habían llevado a cabo anteriormente respecto a temas tan importantes como la Iglesia, la reforma agraria y el ejército. La entrada de cedistas en el gobierno radical de Lerroux motivó los alzamientos revolucionarios de Asturias y Cataluña en octubre de 1934 y la consiguiente represión.

En las elecciones de febrero de 1936 triunfó el Frente Popular, grupo que estaba formado por casi todos los partidos republicanos y de izquierdas, que se habían presentado unidos. Entre ellos, Acción Republicana (el partido de Manuel Azaña), el Partido Socialista Obrero Español (PSOE) y el Partido Comunista de España (PCE). La República formó un gobierno de concentración con el socialista Largo Caballero al frente, en busca de apoyo internacional. solo la U.R.S.S. y las brigadas internacionales ayudaron a la República; el Comité Internacional de No Intervención impidió la colaboración con los bandos enfrentados, pero Alemania, Italia y Portugal apoyaron al bando nacionalista.

Así, en julio de 1936, se produjo el golpe militar que dio comienzo a la Guerra Civil española (1936-1939). Durante el enfrentamiento, hubo tres presidentes del gobierno republicano: José Giral (1936) y los socialistas Francisco Largo Caballero (1936-1937) y Juan Negrín (1937-1939).

El fracaso del golpe militar desencadenó en la zona republicana una verdadera revolución social.

Los comités de los partidos y sindicatos obreros pasaron a controlar los elementos esenciales de la economía: transportes, suministros militares, centros de producción. Mientras el gobierno se limitaba a ratificar legalmente lo que los comités hacían de hecho. En el campo, tuvo lugar una ocupación masiva de fincas. Las grandes propiedades y, en algún caso, las medianas y pequeñas. En las zonas donde predominaban los socialistas se llevó a cabo la socialización de la tierra y su producción. En las zonas de hegemonía anarquista tuvo lugar una colectivización total de la propiedad. En algunos casos, se llegó incluso a abolir el dinero.

En septiembre de 1936 se estableció un gobierno de unidad, presidido por el socialista Largo Caballero y con ministros del PSOE, PCE, Izquierda Republicana y grupos nacionalistas vascos y catalanes. En noviembre se incorporaron cuatro dirigentes anarquistas, entre ellos Federica Montseny, la primera mujer ministro en España.

El gran desafío del nuevo gobierno era recuperar el control de la situación y crear una estructura de poder centralizada que pudiera dirigir de forma eficiente el esfuerzo de guerra. La tarea era enorme difícil. El poder estaba en manos de miles de comités obreros y milicias que a menudo se enfrentaban entre sí, especialmente los anarquistas con socialistas y comunistas. Los gobiernos autónomos eran otro factor de disgregación. No sin dudas, el nacionalismo vasco había optado por apoyar la República y en octubre se aprobó el Estatuto vasco. Jose Antonio Aguirre se convirtió en el primer lehendakari o presidente del gobierno autónomo.

En la zona republicana se enfrentaron básicamente dos modelos. Por un lado, la CNT-FAI y POUM que emprendieron la inmediata colectivización de tierras y fábricas. Su lema era "Revolución y guerra al mismo tiempo". Su zona de hegemonía fue Cataluña, Aragón y Valencia. Por otro lado, el PSOE y el PCE intentaron restaurar el orden y centralizar la toma de decisiones en el gobierno, respetando la pequeña y mediana propiedad. Su lema era "Primero la guerra y después la revolución".

spagna-repubblicanaLas disensiones internas fueron continuas y llegaron a su momento clave en Barcelona en mayo de 1937. El gobierno de la Generalitat, siguiendo instrucciones del gobierno central, trató de tomar el control de la Telefónica de Barcelona, en manos de un comité de la CNT desde el inicio de la guerra. El intento desencadenó una insurrección y los combates callejeros se extendieron por Barcelona.  La crisis de Mayo de 1937, provocó la dimisión del gobierno de Largo Caballero. El nuevo gobierno presidido por el socialista Negrín, tenía una mayoría de ministros del PSOE, pero se inclinaba cada vez más hacia las posturas defendidas por el PCE. La ayuda soviética había hecho que los comunistas pasaran de ser un grupo minoritario a una fuerza muy influyente. Los enfrentamientos entre stalinistas y trostkistas se re reprodujeron en suelo español. El POUM fue ilegalizado y su dirigente, Andreu Nin, "desapareció" estando en manos de agentes soviéticos.

Aunque ya era tarde para cambiar el signo de la guerra, a partir de ese momento se impuso una mayor centralización en la dirección de la economía y se terminó de construir el Ejército Popular, acabando con la indisciplina de las milicias. A partir de marzo de 1938, momento en el que las tropas de Franco llegaron al Mediterráneo y dividieron en dos la zona republicana, surgieron de nuevo dos posturas enfrentadas. Mientras la postura oficial, representada por Negrín y apoyada por el PCE y parte del PSOE, seguía defendiendo la "resistencia a ultranza", algunos dirigentes, anarquistas y socialistas, empiezan a hablar de la necesidad de negociar ante la perspectiva de la segura derrota.

Los acontecimientos internacionales: el Pacto de Munich en septiembre de 1938, la retirada de las Brigadas Internacionales, la disminución de la ayuda soviética; y los internos: la caída de Cataluña, reforzaron la idea de que la guerra estaba perdida. Así, en marzo de 1939 el golpe del coronel Casado desalojó del poder a Negrín. La esperanza de negociar con Franco se disipó inmediatamente, cuando el dictador exigió la rendición incondicional.

giovedì 8 marzo 2012

Il Giorno della Donna

Alexandra Kollontai*, 1913
*rivoluzionaria sovietica, femminista e prima donna al mondo che abbia avuto incarico di Ministro e Ambasciatrice: per saperne di più.

Cos'è il giorno della donna? E' realmente necessario? Non è una concessione alle donne della classe borghese, ai movimenti femministi e alle suffragette? Non è dannoso all'unità del movimento operaio? Di queste questioni si sente ancora discutere in Russia, sebbene all'estero non se ne parli più. La vita stessa ha già dato una risposta chiara ed eloquente.

Il giorno della donna è un anello della catena lunga e compatta del movimento operaio delle donne. L'esercito organizzato delle donne lavoratrici cresce di giorno in giorno. Venti anni fa i sindacati operai contavano soltanto piccoli gruppi di donne sparpagliate qua e là tra la fila del partito dei lavoratori...Ora i sindacati inglesi contano più di 292.000 donne sindacaliste, in Germania ci sono circa 200.000 sindacaliste e 150.000 iscritte al partito dei lavoratori, in Austria 47.000 nel sindacato e 20.000 nel partito. Ovunque, in Italia, in Ungheria, in Danimarca, Svezia, Norvegia e Svizzera le donne della classe operaia si stanno organizzando fra loro. L'esercito delle socialiste conta quasi un milione di membri. Una forza poderosa! Una forza con cui i potenti del mondo devono fare i conti quando si pone sul tavolo il tema del costo della vita, dell'assicurazione della maternità, di lavoro infantile o di legislazione per proteggere il lavoro femminile.

Una volta i lavoratori uomini pensavano di dover caricare esclusivamente sulle proprie spalle il peso della lotta contro il capitale, di dover affrontare il "vecchio mondo" senza l'appoggio delle loro compagne. Tuttavia, appena le donne della classe operaia entrarono nelle fila di coloro che vendevano la propria forza lavoro in cambio di un salario, costrette ad entrare nel mercato del lavoro per necessità, perché il padre o il marito erano disoccupati, gli operai iniziarono a rendersi conto che lasciare le donne senza una coscienza di classe voleva dire danneggiare la propria causa e farla arretrare. Maggiore il livello di coscienza nella lotta, maggiori le possibilità di successo. Che coscienza può possedere una donna seduta accanto al focolare, senza diritti nella società, nello stato e nella famiglia? Nessuno, fa quel che le ordina il padre o il marito...

Il ritardo e la mancanza di diritti subiti dalle donne, la sua sottomissione e la sua indifferenza non sono di alcun beneficio alla classe operaia, anzi di fatto la danneggiano direttamente. Ma in che modo la donna entrerà nella lotta, come svegliarla?

La socialdemocrazia non ha trovato una soluzione immediata. Le organizzazioni operaie erano aperte alle donne, ma solo in poche lavoravano. Perché? Perché la classe lavoratrice inizialmente non si era resa conto che la donna era l'elemento più socialmente e legalmente svantaggiato di quella classe, che più era stata colpita nel corso dei secoli, intimidita e perseguitata, che per stimolare il suo cuore e la sua mente aveva bisogno di un approccio speciale, di parole che lei, in quanto donna, potesse capire. I lavoratori non avevano compreso subito che in questo mondo di diritti negati e sfruttamento, la donna è oppressa non solo come lavoratrice, ma anche in quanto moglie e madre. Tuttavia, non appena i membri del partito socialista operaio si sono resi conto di ciò, hanno fatto loro la lotta per la difesa delle lavoratrici, come salariate, madri e mogli.

In ogni paese i socialisti cominciavano a domandare una protezione speciale per il lavoro femminile, un'assicurazione per le donne e i loro figli, diritti politici per le donne e la difesa dei loro interessi.

Più il partito operaio percepiva in maniera chiara la dicotomia donna/lavoratrice, più ansiosamente le donne si univano al partito, apprezzavano il ruolo del partito come vero difensore delle loro istanze, comprendevano che la classe lavoratrice lotta anche per i bisogni urgenti ed esclusivi delle donne. Le stesse donne lavoratrici, organizzate e coscienti, hanno fatto tantissimo per spiegare questo obiettivo. Ora il peso del lavoro per attirare le lavoratrici nel movimento socialista sta nelle lavoratrici stesse. I partiti in ogni paese hanno i loro comitati, segretariati e bureau di donne. Questi comitati lavorano tra quella popolazione di donne politicamente ancora non cosciente, ne aumenta la coscienza e la organizza. Prendono anche in esame le questioni che riguardano direttamente le donne: la protezione per le donne incinta e con figli, la regolazione legislativa del lavoro femminile, la campagna contro la prostituzione e la mortalità infantile, la richiesta dei diritti politici per le donne, il miglioramento delle assegnazioni degli alloggi, la campagna contro l'aumento del costo della vita, etc.

Così, come membri del partito le donne lavoratrici lottano per la causa comune di classe, mentre allo stesso tempo delineano e pongono in questione quelle necessità e istanze che le toccano direttamente in quanto donne, mogli e madri. Il partito appoggia queste istanze e si batte per loro....Le rivendicazioni delle lavoratrici sono parte della causa comune dei lavoratori!

Nel giorno della donna, le dimostranti manifestano per i loro diritti!

Ma qualcuno dirà: perché separare la lotta delle donne? Perché esiste un giorno della donna, con speciali volantini per le lavoratrici, incontri e conferenze? Non è questa, in ultima analisi, una concessione alle femministe e alle suffregette borghesi? Solo coloro che non comprendono la differenza radicale tra il movimento delle donne socialiste e le suffragette possono pensarla così.

Qual è lo scopo delle femministe? Ottenere nella società capitalista gli stessi vantaggi, lo stesso potere, gli stessi diritti che possiedono adesso i loro mariti, padri e fratelli. Qual è l'obiettivo delle operaie socialiste? Abolire tutti i tipi di diritti che derivano dalla nascita o dalla ricchezza. Per la donna operaia è indifferente se il suo padrone è un uomo o una donna.

Le femministe borghesi domandano l'uguaglianza dei diritti sempre e in ogni luogo. Le lavoratrici rispondono: rivendichiamo gli stessi diritti per tutti i cittadini, uomini e donne, ma noi non siamo soltanto donne e lavoratrici, siamo anche madri. E come madri, come donne che un giorno avremo un figlio, chiediamo una speciale cura per noi stesse e per i nostri figli da parte del governo, una speciale protezione dallo stato e dalla società.

Le femministe si battono per conquistare i diritti politici. Anche qui i nostri cammini si separano: per le donne borghesi, i diritti politici sono un modo più comodo e più sicuro per raggiungere i propri obiettivi in questo mondo basato sullo sfruttamento dei lavoratori. Per le operaie i diritti politici sono un passo nel cammino aspro e difficile che conduce al desiderato regno del lavoro.

Le strade delle lavoratrici e delle suffragette si sono separate da tempo. C'è una enorme differenza tra i loro obiettivi. C'è anche una enorme contraddizione tra gli interessi della lavoratrice e quelli della signora, della serva e della padrona...Non c'è e non può esserci alcun punto di contatto, convergenza o conciliazione. Perciò i lavoratori non devono temere che ci sia un giorno a parte per la donna, né speciali conferenze per le lavoratrici né una stampa particolare.

Ogni speciale, distinta forma di lavoro tra le donne della classe lavoratrice è semplicemente un modo per aumentare la coscienza delle lavoratrici e avvicinarle alle fila di quelli che combattono per un futuro migliore. Il Giorno della donna e il lento, meticoloso lavoro condotto per elevare l'auto-coscienza della donna lavoratrice, stanno servendo la causa non della divisione, quanto dell'unione della classe operaia.

Lasciate che un sentimento allegro del servire la causa comune della classe operaia e di lottare simultaneamente per l'emancipazione femminile ispiri le lavoratrici ad unirsi alle celebrazioni per il Giorno della Donna.

Donne sull’orlo di una crisi economica


di Giulia Paltrinieri e Chiara Morgottivolantino8marz

La recente depressione economica, la chiusura di molti stabilimenti lavorativi, la continua erosione delle strutture del welfare nell’ultimo decennio, la generalizzata precarizzazione del lavoro e l’aumento del costo della vita portano nuovamente agli occhi di tutti, alla vigilia dell’8 Marzo, la condizione di perpetrante disparità tra uomo e donna.

Dunque, soprattutto in un periodo come questo non possiamo sottovalutare il problema della maggiore esposizione del genere femminile agli effetti della crisi nascondendoci dietro alle storiche conquiste dei movimenti femministi a partire dagli anni ‘70 del Novecento come il referendum sul divorzio (1974), il referendum sull'aborto e l’abolizione delle disposizioni sul delitto d'onore del 1981. Dobbiamo ricordare sempre che ci sono state donne che hanno lottato duramente per ottenere quei diritti che talvolta si considerano scontati e che devono essere ancora oggi, e a maggior ragione, difesi. Ma innalzare la bandiera delle conquiste sociali degli anni ’70 non basta, se no ci si accorge che in realtà oggi la figura della donna viene quotidianamente offesa e mutilata.

Infatti, è nei momenti di maggior disattenzione dell’opinione pubblica e di allontanamento sfiduciato dalla politica che i diritti tendono a vacillare, a rischio soprattutto dei soggetti da sempre meno tutelati.

Esemplare il caso dell’azienda Inzago in Lombardia costretta dalla crisi a tagli del personale e a quattro anni di cassa integrazione: il personale “scelto” per entrare in mobilità prima, e essere licenziato poi, è interamente di sesso femminile. I padroni dell’azienda per di più giustificano tale scelta sostenendo che è meglio per le donne tornare al “focolare”, dedicandosi al lavoro di cura (di casa, famiglia, bambini), a loro più adatto che il lavoro in fabbrica. Inoltre, a loro dire, il lavoro delle donne costituisce solo il “secondo stipendio” e il loro licenziamento dunque è meno grave per la sorte della famiglia che quello dell’uomo di casa. Non dimentichiamo poi il discusso caso dell’OMSA di Faenza e dei suoi 240 dipendenti che tra pochi giorni vedranno scadere la cassa integrazione e si avvieranno verso il licenziamento: la maggioranza di questi sono lavoratrici donne.

In secondo luogo ricordiamo il diffuso fenomeno delle cosiddette dimissioni in bianco: la lettera che tante lavoratrici si trovano davanti nel momento in cui si dimettono (in)volontariamente e su cui non è apposta alcuna data. Nel nostro paese vi è stato un tentativo di limitare tale fenomeno ricattatorio con una legge, la n°188, la quale prevedeva un sistema di moduli d’assunzione numerati in maniera progressiva e validi per un periodo limitato di tempo. L’ex ministro del lavoro Sacconi non ha esitato un attimo ad abolire tale legge e da quel momento le dimissioni di lavoratrici non hanno fatto che aumentare, specialmente in concomitanza con la maternità e, nel caso di lavoratrici precarie, appena prima del raggiungimento dei requisiti utili per il rinnovo contrattuale. Lo stesso ministro Fornero, pur dichiarandosi incline alla risoluzione di tale problema, si mostra dubbioso nei confronti del ripristino della 188. Per le donne, dunque è ancora difficoltoso il diritto ad entrare in maternità senza incorrere in licenziamenti e differenziazioni nell’avanzamento di carriera ma, sul versante opposto, risulta allo stesso modo problematica anche la possibilità di usufruire pienamente ed in libertà delle disposizioni contenute nella legge 194. Il nostro paese infatti mostra un numero esorbitante di obiettori di coscienza tale che spesso è impossibile per una donna interrompere una gravidanza indesiderata senza recarsi addirittura in altre paesi o province. In tal modo viene leso il diritto costituzionale alla libertà di scelta sul proprio corpo. Il 70,7% dei ginecologi italiani attivi in strutture pubbliche che effettuano l’interruzione volontaria di gravidanza è obiettore di coscienza. Con punte del 92,6% in Basilicata e dell’80,5% del Veneto. Quasi in tutte le regioni italiane il numero dei ginecologi obiettori è maggiore rispetto a quello dei colleghi che effettuano gli aborti. Per non parlare poi della diffusa avversione nei confronti della “pillola del giorno dopo”, dell’ostracismo politico verso la legalizzazione della pillola abortiva ( RU 486) , della disinformazione riguardo l’uso dei contraccettivi e della massiccia presenza di volontariato e associazionismo cattolico all’interno dei consultori avente l’effetto di orientare ideologicamente la scelta della donna nel momento di maggior fragilità. Pensiamo poi al fatto che per arginare il fenomeno della disparità nell’accesso alla politica delle donne e nella loro rara presenza in posizioni di rilievo, si sia dovuti ricorrere ad un provvedimento come quello delle “quote rosa”, il quale prevede la presenza obbligatoria del genere femminile nella misura di 1/5 dei membri delle società o aziende a partecipazione pubblica (comunque ancora lontana da una reale parità!). Questo intervento, pur avendo l’intento di favorire la partecipazione delle donne ai vertici del paese, pare in realtà sottintendere ancora una non effettiva parificazione tra i due sessi: sembra quasi che, a questo punto, la donna faccia carriera non per un reale merito ma per un obbligo imposto dall’alto.

Come poi non fare riferimento all’umiliazione e alla costante “prostituzione” del corpo femminile che avviene ogni giorno sotto gli occhi di tutti e della quale molti sembrano non accorgersi nemmeno? Se le donne riescono raramente e con estenuante fatica a raggiungere una qualche visibilità sul mondo del lavoro e nella vita politica, non si può certo dire la stessa cosa per quanto riguarda il mondo della televisione e della pubblicità! Sembra non esistere cartellone promozionale, pagina di rotocalco, talk show o quiz delle reti commerciali nella quale la donna valga più della crema per il viso che sponsorizza o dell’arredamento decorativo del conduttore di turno, in un ostentazione del corpo e della nudità della donna quanto mai offensiva e degradante.

In questo quadro generale dell’attuale situazione di disparità di genere nel nostro paese ci sembra corretto soffermare l’attenzione anche su un fenomeno destinato ad una crescente espansione. Come noto, in tutto il mondo, le donne che hanno subito mutilazioni genitali femminili sono 130 milioni circa. La pratica delle mutilazioni rappresenta una grave violazione dei diritti umani delle donne e delle bambine. Essa viola il diritto all'integrità fisica e psicologica, a essere libere da ogni forma di discriminazione o violenza e di trattamento crudele e disumano. Viola i diritti dell'infanzia e, in casi estremi, il diritto alla vita. Questo è un problema che inizia ad interessare il nostro paese dal momento che, sempre più spesso, si stanno presentando casi di bambine nate in Italia ma sottoposte a tale intervento nella terra d’origine della famiglia. Pur essendo la mutilazione genitale femminile ritenuta un reato, il tribunale di Milano, ad esempio, ha condannato a soli due anni il padre egiziano che, senza il consenso materno, ha sottoposto in Egitto la figlia a escissione. In Piemonte una bambina sottoposta dai genitori a mutilazione genitale in una clinica nigeriana è stata addirittura reintegrata in famiglia alla quale è stata riconosciuta l’idoneità ad occuparsene. Da questi esempi risulta evidente che tali provvedimenti non bastano. Il nostro paese dovrebbe prendere una posizione più incisiva a riguardo e non liquidare tale fenomeno come espressione di un diritto culturale e legittimarlo in quanto “credenza religiosa” di altri, se è vero che non la cultura in sé ma in quanto scelta da un individuo in grado di decidere è un bene meritevole di tutela (Nussbaum). Stesso discorso vale per i matrimoni combinati tra ragazze nate in Italia con giovani sconosciuti del paese originario della famiglia, se la volontà della futura sposa è contraria a quella dei genitori. Da anni associazioni come Amnesty International o Emergency chiedono all’Unione Europea un impegno forte per porre fine alle mutilazioni e, nonostante i tentativi dell’Unione sembrino essere poco coerenti e strutturati, un qualche piccolo risultato è stato ottenuto con la Convenzione del Consiglio d’Europa per prevenire e combattere la violenza contro le donne e la violenza domestica. L’Italia non ha ancora firmato la Convenzione. Cecile Greboval, direttrice dell'European Women's Lobby a riguardo afferma: "Porre fine a tutte le forme di violenza contro le donne, comprese le mutilazioni dei genitali femminili, dev'essere una priorità, specialmente in tempi di crisi. Sappiamo che l'Unione europea potrebbe avere gli strumenti per far cessare la violenza contro le donne e sviluppare una strategia che garantisca a tutte le donne il diritto di vivere libere dalla violenza. Allora, cosa stiamo aspettando?".

Questa crisi ed il sistema che l’ha generata ci insegnano dunque che le lavoratrici subiscono gli effetti della depressione economica e sociale in maniera maggiore rispetto agli uomini: le donne vengono a parità di mansioni pagate meno, le donne sono mantenute più a lungo precarie, le donne fanno più difficilmente carriera rispetto ai loro colleghi maschi. Il modello consumistico occidentale non fa che ridurre la donna da soggetto a oggetto. E quando parliamo di consumismo, parliamo necessariamente anche di capitalismo. Parliamo di un sistema dove il profitto sta sempre al primo posto, a costo di calpestare i diritti dei lavoratori e soprattutto delle lavoratrici. Parliamo di un sistema che non è soltanto “modo di produzione” ma anche veicolo di istituzioni e valori come patriarcato e familismo. Affrontare la questione femminile significa innanzitutto affrontare i problemi insiti nella struttura economica del sistema capitalista. Sentiamo dunque l’esigenza di una presa di coscienza collettiva delle donne perché pensiamo sia possibile una trasformazione della società e della politica a partire dalla soggettività femminile come primo passo verso una “rivoluzione più lunga”. Perché un’emancipazione reale della donna può realizzarsi solo attraverso un cambiamento strutturale che porti alla realizzazione di un sistema fondato sull’uguaglianza e sulla cooperazione economica e sociale.

giovedì 26 gennaio 2012

ANCHE NOI ADERIAMO ALLA CAMPAGNA “IO MI CHIAMO GIOVANNI TIZIAN”

E’ passato ormai più di un mese da quando è stato deciso di mettere sotto scorta Giovanni Tizian, 29 anni, giovane giornalista minacciato dalla criminalità organizzata per le sue inchieste su casalesi, ‘ndrangheta e Cosa nostra. E questo dove è accaduto? Casal di Principe? Torre Annunziata? Caltanissetta? No, Modena, Emilia-Romagna. Giovanni, figlio di Peppe Tizian, assassinato a Locri il 23 Ottobre 1989 dalla ‘ndrangheta mentre tornava a casa dal lavoro, dal 2006 è collaboratore precario per la Gazzetta di Modena, racconta il volto settentrionale delle mafie su Linkiesta.it, Lettera 43 e Narcomafie, è in prima fila sul fronte antimafia con l’associazione daSud. Si era da poco occupato anche di Reggio Emilia.

E dire che la presidente di provincia Sonia Masini, nel Febbraio 2009 ad un convegno sulle infiltrazioni mafiose in territorio reggiano, davanti al procuratore Gratteri e al criminologo Nicaso, aveva affermato: “Reggio è sana. Qui la mafia non esiste”. Meno male che esattamente un anno fa sulla Gazzetta di Reggio (la stessa che ora dedica la prima pagina a Tizian) Mario Degola accusava noi, Enrico Bini e il Venerdì di Repubblica di sopravvalutare il problema e di fare parte della “schiera di agguerriti tifosi di miti collettivi come quello di Gomorra a Reggio”. Noi abbiamo risposto immediatamente all’idiozia di quell’intervento, non molti altri lo hanno fatto. Meno male che all’incontro con Christian Abbondanza (intervistato addirittura da Iacona domenica scorsa a Presa Diretta!) venuto a Correggio il 29 Novembre 2011 a presentare il libro “Tra la via Emilia e il clan” non si sia presentato alcun assessore né consigliere comunale della provincia, nessun direttore di banca né presidente di grandi cooperative, nessuno a parte un solo isolato assessore di Boretto, pur essendo stati tutti formalmente invitati dagli organizzatori.

“Reggio è sana. Qui la mafia non esiste”. E intanto si sigillano cantieri a Fabbrico, Correggio e Novellara. Automobili vanno a fuoco nelle periferie di Reggio (sono 25 i roghi dolosi e sospetti solo nell’ultimo anno). Il figlio del boss Alfonso Capraro viene arrestato con l’accusa di estorsione aggravata di stampo mafioso, siamo a Bagnolo.

Cittadinanze onorarie a Don Ciotti? Incontri con procuratori antimafia e giornalisti siciliani introdotti dagli assessori comunali? Atti ammirevoli. Ma questo non basta, come non basta riempire i propri carrelli di tarallini di Libera. Noi crediamo che arrivati a questo punto riempirsi la bocca di “solidarietà” e di legalità di facciata non serva proprio più a nulla. Crediamo che si debba ripartire da una lotta reale e un’azione diretta che vada sui cantieri edili e gli appartenenti sfitti, che controlli le gare d’appalto e gli scontrini maggiorati nelle pizzerie che riciclano denaro sporco, che si tenga sott’occhio il giro delle slot machine, del videopoker e del traffico di prostituzione e stupefacenti. Crediamo che sia fondamentale anche qui a Reggio e in Emilia affrontare a tutti i livelli il problema delle organizzazioni criminali. Della mafia, seconda faccia del capitalismo più malato e del perseguimento del profitto ad ogni costo, economia nell’economia, stato nello Stato che non ha mai smesso però di collaborare con parlamentari e consiglieri comunali, modello culturale che sdogana clientelismo, raccomandazione e politica dell’intrallazzo. Di quella che non è più solo una “questione meridionale”, ma una questione nazionale. Per questo, e per tanti altri motivi, noi del Fronte sosteniamo Giovanni Tizian e tutti quei giornalisti precari che ogni giorno portano avanti la loro attività di controinformazione e d’inchiesta in uno stato di totale vulnerabilità economica e fisica. Sosteniamo anche tutti quei giornalisti di cui non si parla mai, quelle centinaia di redazioni in Italia, periodicamente minacciate e ricattate che non vengono mai ricordate non vantando in curriculum una situazione abbastanza grave da meritare i riflettori della gloria televisiva e i programmi di Rai Tre. Per questo ci chiamiamo Peppino Impastato, giornalista di Cinisi ucciso nel ’78, e Giancarlo Siani, cronista del Mattino di Napoli assassinato nel ’85 dalla camorra. Per questo ci chiamiamo Lirio Abate, collaboratore dell’ANSA ancora vivo dopo l’ultimo attentato sventato nel 2007. Ci chiamiamo Rosaria Capacchione del Mattino di Napoli e Pino Maniaci di Tele Jato nella provincia palermitana, entrambi sotto scorta ormai da più di dieci anni.

E per questo nel 2012, a Modena, Emilia Romagna, anche noi ci chiamiamo Giovanni Tizian.

venerdì 13 gennaio 2012

Maledetta primavera: docufilm e dibattito sulla “primavera araba”

Cosa succede veramente dall'altra parte del mediterraneo? Perché hanno bombardato e colonizzato la Libia?  I media ce la raccontano giusta o sono allineati e coperti nelle politiche di chi fa una guerra dopo l'altra? Chi è davvero Gheddafi e chi sono davvero i ribelli di Bengasi? Tra Hillary Clinton e Assad, quale verità sulla Siria. Quale destino per le primavere arabe, quelle vere, quelle false.
Una serata di discussione e dibattito con l'autore Fulvio Grimaldi: un docufilm su rivoluzioni, controrivoluzioni e guerre NATO nel mondo arabo.



Il pub che ci ospita è il “MakiPub”, a Bagnolo (5 minuti dal centro cittadino) in via Boiardo 4/4

domenica 8 gennaio 2012

Il Fronte intervista Omar Mih,rappresentante italiano del Fronte Polisario

Per approfondire la questione del popolo saharawi e del Fronte Polisario può essere utile questo articolo del    Fronte.

- Cos’è il Fronte Polisiario? Qual è la sua natura politica e quali le sue tattiche?
Il Polisario è un movimento di liberazione (rappresentato in tutti i paesi europei) nato anni negli anni 70, il 10 maggio 1973, con lo scopo di liberare il Sahara occidentale dalla presenza coloniale spagnola e per ottenere l’ indipendenza del popolo saharawi. All’interno del movimento di liberazione sono rappresentati tutti i pensieri politici con un denominatore comune però: la convinzione che il popolo deve avere la sua autodeterminazione e il paese deve diventare indipendente. Il Fronte Polisario fino agli anni ‘90 ha utilizzato la lotta armata come strumento di liberazione..da quegli anni in poi invece il Polisario pratica la strada della non violenza e della collaborazione con la comunità internazionale, in particolar modo con le Nazioni Unite.
- Quali sono i suoi rapporti internazionali e soprattutto con l’Italia?
Le sue relazioni sono molto ampie, tutti gli stati dell’Africa, dell’America Latina, dell’Asia e anche con paesi occidentali. Questo territorio è riconosciuto dagli anni ‘60 dall’ONU come autonomo e pertanto la popolazione ha diritto all’autodeterminazione. Su questa base il Fronte Polisario stringe rapporti politici. Con l’Italia abbiamo ottimi rapporti diplomatici: il parlamento italiano in diverse occasioni, e in modo trasversale, ha sostenuto il diritto all’ autodeterminazione del popolo sharawi.
- Possiamo allora fare un raffronto tra il Fronte Polisario e il CLN italiano durante la Liberazione, al cui interno militavano forze politiche molto differenti tra loro, nonostante il ruolo egemone del Partito Comunista Italiano e dei suoi militanti.
Anche all’interno del Fronte Polisario esiste una forza egemone?
All’interno del Fronte Polisario ci sono diverse correnti di pensiero: dai liberali ai marxisti fino agli arabisti. L’accordo raggiunto tra tutte queste diverse sensibilità è che al momento della liberazione dalla dominazione coloniale e con l’indipendenza, il Fronte si scioglierà rimanendo un patrimonio ideale per il popolo saharawi. Tutte le forze componenti diventeranno poi partiti politici che si presenteranno a libere elezioni.
- Rapporti con gli altri paesi dell’area. Ci sono paesi che più di altri sostengono attivamente la lotta del popolo Saharawi e del Fronte Polisario?
Certamente. Intanto l’Unione Africana che racchiude tutti i paesi del continente a parte il Marocco.Questo perché l’UA ha riconosciuto, nel 1984, l'indipendenza della Repubblica Araba Saharawi Democratica. La maggioranza dei paesi africani, anche se non tutti, sostiene questa posizione.
- In particolar modo, ci può spiegare meglio i rapporti con l’Algeria e la Libia?
Con tutti i paesi del Maghreb abbiamo buoni rapporti, eccetto ovviamente il Marocco. Addirittura con la Mauritana, che era scesa in guerra contro di noi. Dopo due anni di conflitto l’abbiamo sconfitta ed ora riconosce la Repubblica Saharawi e il Polisario, rinunciando a tutte le proprie rivendicazioni . L’Algeria è un alleato storico, non solo perché ha dato ospitalità ai rifugiati saharawi , ma ha sostenuto la nostra battaglia per l’autodeterminazione. Come la Tunisia o la Libia e l’Egitto: a parte le monarchie, tutte solidali con il Marocco.
- La destabilizzazione dell’area e la “primavera araba”. Soltanto una mossa geopolitica che riguarda il MO? Cosa vi aspettate che cambi per il popolo saharawi?
No, pensiamo sia una rivoluzione araba cominciata proprio nel Sahara occidentale, nel novembre del 2010 con le grandi proteste di El Ayun. E ci piacerebbe che questo fosse di aiuto per far conoscere ancora di più la nostra situazione e la nostra causa. Anche perché i popoli del nord africa hanno perso la paura, chiedono più libertà, democrazia, rispetto dei diritti umani facendo cadere dittatori come Ben Alì e Mubarak.
Noi speriamo che questo vento arrivi anche in Marocco, dove già ci sono le condizioni. Esiste un movimento, che si chiama “20 di febbraio”, che tutti i fine settimane fa delle manifestazioni di protesta chiedendo proprio più libertà e democrazia.
- Per il futuro. Quale tipo di lotta intendete portare avanti? Continuare sulla strada della non violenza? O è possibile un ritorno alla lotta armata?
Ormai da 20 anni i dirigenti del Polisario hanno intrapreso la strada della resistenza pacifica e su questa strada stiamo continuando. Non so fino a quando possiamo resistere, se non arriva una risposta positiva dalla comunità internazionale. Però la scelta, malgrado le provocazioni del Marocco e di tutti i suoi amici, è di continuare su una strada pacifica. Questa è la nostra linea.
- Chi sono gli amici del Marocco?
La Spagna chiaramente ma anche e soprattutto la Francia che lo sponsorizza e gli da sostegno economico contro gli stessi principi che “proclama” nel mondo, come possiamo vedere in Libia per “difendere la popolazione” o in Siria per la “difesa dei diritti umani”!

venerdì 6 gennaio 2012

Il nostro primo tricolore

Nata il 7 gennaio 1797 a Reggio Emilia, è considerata la prima bandiera nazionale italiana. Così come la repubblica, ebbe vita fino al 17 luglio 1797. La bandiera fu preceduta (1796) da stendardi militari della Repubblica Transpadana ispirati al tricolore francese che Napoleone aveva assegnato ai patrioti italiani che lo seguivano. È probabile che su tale scelta abbia influito l'uniforme della Milizia Civica milanese, i cui militi erano detti remolazzit, dal nome locale di una specie di rapa, per via delle loro divise verdi e bianche. Quando poi la Milizia fu trasformata in Guarda Nazionale, si aggiunse anche il rosso dei baveri, dei risvolti e delle spallette. Sull'emblema centrale, che assunse la forma definitiva il 25 febbraio, figuravano le iniziali della repubblica e un turcasso con quattro frecce, in rappresentanza delle province di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio che formarono l'originaria federazione Cispadana.


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