venerdì 30 dicembre 2011

La questione del Sahara Occidentale. Liberate Rossella Urru.

Rabat (Marocco), 15 dic. (LaPresse/AP) - Il Fronte Polisario ha reso noto sul suo sito web di avere in custodia i sospetti rapitori della cooperante italiana Rossella Urru e dei due colleghi spagnoli. Il capo del movimento di liberazione attivo nel Sahara, Khatri Addouh, ha detto che le diverse persone detenute sono membri "di un'organizzazione criminale precedentemente sconosciuta". Addouh ha parlato da Tifarti, nella parte del Sahara Occidentale controllata dal Marocco e annessa al suo territorio nel 1975. Lo scorso ottobre un gruppo di uomini armati ha sequestrato la Urru e gli altri due operatori umanitari da un campo per rifugiati nel sud dell'Algeria, al confine con il Marocco. Il rapimento era stato rivendicato da un gruppo sconosciuto legato al ramo nordafricano di al-Qaeda.
La nostra connazionale Rosella Urru è tutt’ora nelle mani dell’estremismo islamico, che fa riferimento alla vuota sigla di “al-Qaeda”, riconducibile senza troppi sforzi all’intelligence USA.
Ci auguriamo che possa presto venire liberata e con lei i suoi colleghi spagnoli, primi sostenitori della causa del popolo Sarahwi.  Cerchiamo però di capire meglio la questione, di inquadrarla geograficamente e politicamente. Perchè è evidente come stiano cercando di delegittimare la valenza e l’importanza della lotta del popolo saharawi e del Fronte Polisario attribuendogli la responsabilità di quanto avvenuto. Un gioco simile a quanto è avvenuto e avviene tutt’ora a chi decide di non sottostare agli ordini e voleri dell’imperialismo. Non possiamo accettarlo! Le menzogne e la propaganda mediatica non ci disorienteranno.
            W il popolo saharawi! w il Fronte Polisario! w la Repubblica Araba Saharawi Democratica!
Il Sahara Occidentale si trova sulla costa atlantica dell’Africa del Nord, tra il Marocco e la Mauritania. Il suo territorio è completamente arido, pianeggiante e sabbioso a ovest, collinoso e roccioso a est. I rari corsi d’acqua sono stagionali, secchi durante l’estate. Per due terzi è sotto occupazione del Marocco.  La stragrande maggioranza della popolazione è costituita dai coloni marocchini. I saharawi (popolazione discendente dalle locali tribù berbere dei Sanhadja e successivamente fusasi con gli arabi arrivati qui dallo Yemen nel XIII secolo) sono un’esigua minoranza a est del muro costruito dall’occupante marocchino nel deserto ( che si snoda da nord a sud lungo tutto il territorio ). Si contano più di 200.000 rifugiati nelle tendopoli allestite nel deserto algerino, attorno alla città di Tindouf, mentre la popolazione nella regione tocca le 300.000 unità.
Il Paese dipende economicamente dal Marocco, che importa forniture alimentari ed energetiche e gestisce le poche attività locali: la pastorizia nomade (cammelli, capre e pecore) e la coltivazione di palme da dattero nelle oasi del deserto. Ma sono la pesca nelle acque dell’oceano e l’estrazione di fosfati il vero business sui cui le potenze coloniali ( ormai è inutile definirle “ex” ) hanno messo gli occhi da svariati decenni.
Il Sahara Occidentale ottiene l'indipendenza dalla Spagna nel 1975 dopo due anni di lotta del Fronte Polisario (Fronte Popolare di Liberazione della Saguia el Hamra e Rio de Oro), ma viene subito occupato dal Marocco, a nord, e dalla Mauritania, a sud, in base a un accordo segreto tra i due paesi africani, stipulato a Madrid. Migliaia di saharawi fuggono dai bombardamenti dell'aviazione marocchina (che utilizza bombe al napalm e al fosforo sui villaggi) accampandosi nel deserto Algerino, vicino a Tindouf. Qui presto si concentrano tutti i profughi e qui il Fronte Polisario, nel 1976, proclama lo stato indipendente "in esilio" dei saharawi: la Repubblica araba saharawi democratica (Rasd), che verrà riconosciuta da una settantina di paesi. Nel Sahara Occidentale il Polisario inizia una dura guerriglia di resistenza. Nel 1979 la Mauritania ritira le proprie truppe. Il Marocco allora, appoggiato da Spagna, Francia e Stati Uniti, raddoppia lo sforzo bellico e occupa anche la parte meridionale del paese. Ma il Fronte Polisario reagisce con forza, e nei primi anni '80 riesce a liberare varie zone dall'occupazione marocchina. Rabat risponde edificando una muraglia fortificata, minata ed elettrificata lunga 2.500 chilometri in cui racchiude i territori occupati, e al riparo della quale inizia una massiccia colonizzazione, accompagnata da una sanguinosa pulizia etnica contro i saharawi. Fuori dal muro la guerra continua. Nel 1991 l'Onu riesce ad imporre il cessate il fuoco e l'organizzazione di un referendum per l'autodeterminazione del popolo saharawi sotto l'egida di una missione delle Nazioni Unite (Minurso). Dopo lunghe e difficili trattative, la consultazione viene fissata per il 1992, ma il Marocco boicotta in ogni modo la preparazione del referendum, continuando le azioni militari e contestando i criteri di definizione della base elettorale (che secondo Rabat deve includere anche i coloni marocchini). Così la consultazione viene rimandata al 1998, e poi ancora al 2000. Ma non accade nulla. Ad oggi, nonostante l’abbandono della lotta armata del Fronte Polisario nella speranza di poter ottenere più risultati tramite la via non violenta, la celebrazione del referendum appare ancora lontana e l'occupazione marocchina del Sahara Occidentale prosegue nell’indifferenza generale.
fonte principale:peacereporter

sabato 10 dicembre 2011

Reggio Emilia è Antifascista! Ora e sempre, Resistenza!

 

bandiera fronte

«Durante l'occupazione nemica opponeva al tedesco invasore la fiera resistenza dei suoi figli, accorsi in gran numero nelle formazioni partigiane impegnate in dura e sanguinosa lotta. Cinquecento caduti in combattimento, interi comuni distrutti, popolazioni seviziate e sottoposte al più spietato terrore, deportazioni in massa, stragi inumane e crudeli persecuzioni, costituiscono il bilancio tragico, ma luminoso, di un'attività perseverante e coraggiosa iniziata nel settembre 1943 e conclusa con la disfatta delle forze d'occupazione. Memore di nobili secolari tradizioni, riaffermate nell'epopea del Risorgimento, la Città di Reggio Emilia ha saputo degnamente concludere un rinnovato ciclo di lotte per la libertà e per l'indipendenza ed offrire alla Patria generoso tributo di sacrificio e di sangue.»
Settembre 1943 - aprile 1945

venerdì 18 novembre 2011

Questo 17 novembre.

fronteistruz

Ieri è stata una giornata bellissima.

Abbiamo sfilato per le strade di Reggio Emilia, compatti ed uniti, per ribadire il nostro secco e irremovibile no al sistema capitalista. La finanza internazionale, che per anni ha mascherato la crisi sempre più profonda del nostro sistema produttivo e sociale, ha ora gettato la maschera.
E lo ha fatto per cercare di puntellare, a modo suo, un mondo fatto di precarietà del lavoro, diritti negati, insicurezza, guerre e sfruttamento.
Non è un caso se il Governo tecnico guidato dall’emissario della finanza internazionale (Rockfeller-Goldman Sachs) Mario Monti ha tra i suoi ministri banchieri, militari e personaggi legati doppio filo agli Stati Uniti d’America e alla Banca Centrale Europea.
Cercheranno di uscire da una crisi sistemica con l’unico metodo che essi conoscono: tagli allo stato sociale, ai diritti dei lavoratori, all’istruzione.
E a rimetterci saremo sempre noi.

Noi che studiamo in scuole fatiscenti, in classi sovraffollate e che ci smisteranno in direzioni già prestabilite: i figli dei ricchi da una parte, che potranno pagare un’istruzione privata, destinati a ruoli dirigenziali. Ed i figli delle classi popolari che andranno ad ingrossare la massa di lavoratori dequalificati e sempre ed ancor più sfruttabili.

Noi che paghiamo rette elevatissime per studiare nelle Università pubbliche e che non troviamo occupazione quando finiamo il nostro percorso formativo. La ricerca scientifica e il merito in questo Paese non interessano purtroppo.

Noi che lavoriamo in nero per tirare avanti, o che continuiamo ad accettare contratti a progetto, di collaborazione ed oltre quaranta tipologie di sfruttamento legalizzato perché altrimenti non sappiamo come campare.

Noi che oggi, 17 novembre, giornata internazionale dello studente ( anniversario degli eccidi nazisti di studenti e professori cecoslovacchi che si opponevano alla guerra imperialista scatenata dalle potenze dell’Asse ) abbiamo rivendicato con forza il diritto allo studio che oggi ci viene sempre più sottratto.
Abbiamo detto no alla ricerca del profitto ad ogni costo. Abbiamo rivendicato diritti che trent’anni fa sembravano acquisiti per sempre e che ora non lo sono più, come i servizi di trasporto pubblico. Un servizio veramente pubblico, alla portata di tutti i cittadini, accessibile come costo ed utile come trasporto.


Ci dicevano che era inutile. Che manifestare non serve a nulla, che costruire partecipazione e dibattito non avrebbe cambiato le cose.
Si sbagliavano di grosso! Lo abbiamo sempre detto, fin dalla prima mobilitazione! Ne eravamo sicuri.
Oggi abbiamo fatto un primo passo, abbiamo ottenuto una piccola vittoria.
Piccola, ma sempre una vittoria. Ed è su questa strada che vogliamo continuare, non ci fermeremo!
Ditelo ai vostri amici, ai vostri conoscenti, ai vostri genitori, ai vostri fratelli.
Oggi abbiamo lottato e abbiamo vinto.

Come diceva Ernesto “Ché” Guevara, grande comunista e rivoluzionario:
                                   

  “Chi lotta può perdere, ma chi non lotta ha già perso!”

Hasta la Victoria! Siempre!

lunedì 7 novembre 2011

Il nostro ottobre. Viva la Rivoluzione!

“Dopo aver varcato l'arco di trionfo della Porta di Mosca, monumento colossale di pietra grigia, ornato di geroglifici d'oro, di enormi aquile imperiali e dei nomi degli zar, ci inoltrammo sulla larga strada diritta, bianca per la prima neve. Era ingombra di guardie rosse a piedi. Gli uni, cantando, si recavano sul fronte rivoluzionario; gli altri ne ritornavano, coperti di fango, il viso ferreo. La maggior parte sembravano dei ragazzi. Vi erano anche donne con delle vanghe; alcune avevano fucili e cartucce; altre portavano i bracciali della Croce Rossa; donne dei tuguri, curve e fiaccate dal lavoro. Gruppi di soldati, che non si curavano di andare al passo, scherzavano amichevolmente con le guardie rosse. Vi erano anche dei marinai dalla faccia severa, dei ragazzi che portavano da mangiare ai parenti e tutti sguazzavano nel fango biancastro, spesso parecchi centimetri, che ricopiava la strada. Oltrepassammo dell'artiglieria, che si dirigeva verso il sud con un gran rumore di ferraglia; dei camion si incrociavano, irti di uomini armati; delle ambulanze, cariche di feriti, tornavano dal campo di battaglia; vedemmo un carretto da contadino, che avanzava traballante e sul quale un giovanotto, ferito al ventre, si teneva piegato in due, pallido e gemente di dolore. Nei campi, dalle due parti della strada, donne e vecchi scavavano le trincee e disponevano i reticolati di filo di ferro spinato.”
“[…] Ritornai a Pietrogrado sul sedile anteriore di un autocarro, guidato da un operaio e carico di guardie rosse. Siccome non avevamo petrolio, le lanterne non erano accese. La strada era ostruita dall'esercito proletario che andava a riposarsi e dalle riserve che venivano a dargli il cambio. Camion enormi, colonne di artiglieria, carri, senza lanterne come noi, sorgevano nella notte. Filavamo nella notte, malgrado tutto, con una velocità indiavolata, gettandoci a destra ed a sinistra, sfuggendo a collisioni che sembravano inevitabili, urtando altre ruote, seguiti dalle ingiurie di pedoni.
All'orizzonte scintillavano le luci della capitale, incomparabilmente più bella di notte che di giorno, come una diga di pietre preziose che tagliasse la pianura nuda.Il vecchio operaio teneva il volante con una mano e con l'altra indicava, in un gesto allegro, la capitale che brillava lontano.
— Tu sei mia! — gridava, il viso tutto illuminato. — Tu sei mia adesso, mia Pietrogrado!””

da “I dieci giorni che sconvolsero il mondo”, del giornalista americano John Reed



venerdì 4 novembre 2011

Solidarietà alle studentesse e agli studenti romani

 

                                          

 

IN PIAZZA CONTRO IL DIVIETO DI MANIFESTARE

Oggi [giovedì 3 novembre] a Roma gli studenti medi sono scesi in piazza contro il divieto di manifestare imposto dal sindaco Gianni Alemanno. Già dalle ore 8, oltre ai cortei che iniziavano a radunarsi davanti ai rispettivi istituti, le camionette delle forze dell’ordine presidiavano l’uscita delle scuole con l’intento di schedare gli studenti e le studentesse che si radunavano per il corteo anti-divieto. Gli studenti in risposta dichiarano “In diversi istituti la Polizia è entrata a controllare le assenze: una forma da regime totalitario, inaccettabile”. Per nulla intimoriti dalle logiche di controllo, i cortei si sono comunque incamminati per radunarsi tutti alla stazione Tiburtina, dove centinaia di studenti volevano manifestare il proprio dissenso; ad aspettarli alla stazione erano già presenti Polizia e Carabinieri in anti-sommossa per fermare il corteo autorganizzato. Pronti a partire, gli studenti, disarmati e a volto scoperto, vengono però caricati dalle forze dell’ordine ripetutamente, con unica motivazione portata da un urlo “Oggi NO!” di un poliziotto. Accerchiati dalla Polizia, l’unico modo di uscire dalla piazza è in fila indiana, schedati dalla Digos, oppure rimanere ad oltranza sequestrati dalle forze dell’ordine. Gli studenti indicono quindi un assemblea aperta a tutti e tutte,  per parlare di quanto successo, dei dieci fermati e di uno studente ferito, del fatto che la risposta da parte del sindaco e del Ministro dell’Interno Maroni ai problemi portati dai giovani sia sempre la repressione.

Allora anche noi, a Reggio Emilia, urliamo la nostra solidarietà alle studentesse e agli studenti romani; urliamo contro le logiche securitarie imposte dal Governo, urliamo contro al fatto che davanti a domande e riappropriazione di diritti la risposta sia sempre l’indifferenza ai problemi o il pestaggio da parte della Polizia. Contro queste logiche, contro un sistema al collasso, contro la crisi che continua ad avanzare e a prevaricarci, sull’onda di un movimento globale, da #occupywallstreet alle lotte studentesche cilene e dagli acampados spagnoli ad #occupyTrieste che propongono e costruiscono alternativa, rilanciamo il 17 NOVEMBRE: GIORNATA MONDIALE DELLO STUDENTE come giornata di costruzione di alternativa reale, di protesta contro quell’1% che su questa crisi ci guadagna. Una giornata nella quale, come oggi a Roma, VOGLIAMO RISPOSTE che non siano la perenne invisibilità o il pestaggio della Polizia e che, in un modo o nell’altro, dovranno saltare fuori.

                           STUDENTI IN MOVIMENTO REGGIO EMILIA, FRONTE GC REGGIO EMILIA

             E tutte e tutti quelli contro le logiche di repressione, UNITI PER UN'ALTERNATIVA REALE

giovedì 3 novembre 2011

ACT. La crisi e alcune soluzioni

Il Fronte dei Giovani Comunisti è sceso in piazza a fianco degli studenti medi, condividendo le loro rivendicazioni e partecipando all’organizzazione della manifestazione. Quello che chiediamo per ora è soltanto il buon senso dell’azienda dei trasporti: usufruiamo di un servizio che paghiamo a caro prezzo ma che risulta essere inefficiente.
Vogliamo portare il nostro contributo modellando il servizio mattutino sui nostri reali bisogni. Siamo disposti a pagare il giusto per un servizio efficiente.
Il prezzo giusto è quello che tiene in considerazione il reddito di ognuno, e ad esso va adattato: chi più ha più paghi.
Sono misure minime per affrontare la crisi che il sistema capitalista ha prodotto e di cui subiamo quotidianamente, anche nel nostro piccolo, gli effetti.
Non ci stancheremo mai di denunciare l’insostenibilità del capitalismo per i destini dell’umanità e del pianeta stesso. Le sue crisi cicliche, sempre più distruttive, non le vogliamo subire ne pagare!
Voi la crisi, Noi la soluzione!
  • stop alle missioni militari all’estero,rispetto della Costituzione ( solo i primi 7 giorni di guerra in Libia ci sono costati 12 milioni di euro!! )
  •  cancellazione di grandi opere inutili e costose come la Tav in Val di Susa e il Ponte sullo Stretto
  •  tassa sui grandi patrimoni e aumento della tassazione sulle transazioni finanziarie
+ soldi alla scuola pubblica, all’Università, alla ricerca
+ fondi allo stato sociale: sanità,trasporti,pensioni e cultura!
 
Respingiamo l’attacco agli studenti e ai lavoratori!
Uniti siamo tutto, divisi siamo niente!

martedì 25 ottobre 2011

Il ruolo genocida della NATO

di Fidel Castro
Questa  brutale alleanza militare si è trasformata  nel più perfido strumento di repressione che la storia dell’umanità ha mai conosciuto.
La NATO ha assunto questo ruolo repressivo tanto rapidamente quanto la URSS, che era servita agli Stati Uniti come pretesto per crearla, ha smesso d’esistere.
Il suo criminale proposito divenne evidente in Serbia, un paese d’origine slava, il cui popolo lottò molto eroicamente contro le truppe naziste nella Seconda Guerra Mondiale.
Quando nel marzo del 1999 i paesi di questa nefasta organizzazione, nei loro sforzi per disintegrare  la Yugoslavia dopo la morte di Josip Broz Tito, inviarono le loro truppe in appoggio ai secessionisti del Kossovo incontrarono una forte resistenza in quella nazione le cui sperimentate forze erano intatte.
L’amministrazione  yankee, con i consigli del Governo di destra spagnolo di José María Aznar, attaccò l’emittente televisiva della Serbia, i ponti sul fiume Danubio e Belgrado, la capitale di questo paese. L’ambasciata della Repubblica Popolare della Cina fu distrutta dalle bombe yankee, vari funzionari morirono, e non ci potevano essere errori possibili, dichiararono gli autori.
Numerosi patrioti serbi persero la vita. Il presidente Slobodan Miloševiс, schiacciato dal potere degli aggressori e dalla scomparsa della  URSS, cedette alle esigenze Della NATO e ammise la presenza delle truppe di questa alleanza nel Kossovo con un mandato Della ONU e questo finalmente portò alla sua sconfitta politica e al suo successivo giudizio in tribunali per niente imparziali a L’Aia. È morto stranamente in prigione.
Se il leader della Serbia avesse resistito alcuni giorni ancora, la NATO sarebbe entrata in una grave crisi che era al punto di scoppiare. L’impero dispose così di molto più tempo per imporre la sua egemonia tra i sempre più subordinati membri di questa organizzazione.
Tra il 21 febbraio e il 27 aprile di quest’anno, ho pubblicato nel sito web CubaDebate nove Riflessioni sul tema, nelle quali ho ampliamente analizzato il ruolo della NATO in Libia e quello che secondo me sarebbe successo.
Per questo mi vedo obbligato ad una sintesi delle idee essenziali che ho esposto e dei fatti che sono avvenuto così come erano stati previsti, adesso che il personaggio centrale di questa storia, Muammar Al-Gaddafi, è stato ferito gravemente dai più moderni  cacciabombardieri della NATO, che hanno intercettato e reso inutile il suo veicolo, lo hanno catturato vivo e assassinato per mano degli uomini che questa organizzazione militare ha armato.
Il suo cadavere è stato sequestrato ed esibito come un trofeo di guerra, una condotta che viola i più elementari principi delle norme musulmane e di altri credo religiosi che prevalgono nel mondo.
Si annuncia che molto presto la Libia sarà dichiarata “Stato democratico e difensore dei diritti umani”.
fonte:granma.cu

mercoledì 19 ottobre 2011

Il Fronte consiglia..

Particolare di un manifesto del PCI
"La cultura [..] è organizzazione, disciplina del proprio io interiore; è presa di possesso della propria personalità, e conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, 
la propria funzione nella vita,
 i propri diritti, i propri doveri."
Antonio Gramsci, Socialismo e culturaIl Grido del popolo

"Il PCI nella storia d'Italia"
a Bologna fino al 23 ottobre, ( per info )
"Realismi socialisti. 
Grande pittura sovietica 1920 - 1970"
a Roma fino all'8 gennaio, ( per info ) 



domenica 9 ottobre 2011

Soviet e Sobornost, di Marco Costa




Riportiamo la recensione del libro ‘Soviet e Sobornost. Correnti spirituali nella Russia sovietica e postsovietica’, del nostro compagno Marco Costa ad opera di Eleonora Peruccacci su Eurasia.

[…] Come l’Ortodossia è uno dei fattori più importanti della storia della Russia, così anche i destini della Russia determinano il destino dell’Ortodossia russa”. Questa frase di A. Smeman, citata in ‘Soviet e Sobornost. Correnti spirituali nella Russia sovietica e postsovietica’, riassume perfettamente l’intera analisi riportata in questo saggio.
Il lavoro di Costa, lungi dal voler offrire una panoramica storiografica completa sulle varie epoche del periodo sovietico, tenta di fotografare alcuni momenti fondamentali per comprendere la continua riconfigurazione tra potere ortodosso e potere politico.

Assecondando quest’ottica, l’autore ha suddiviso il libro in 4 capitoli, corrispondenti a quattro momenti (o fotografie) nei quali la diarchia politico-spirituale del mondo russo si è articolata ai massimi livelli: gli ultimi anni dello zarismo; il nuovo stato bolscevico; il periodo staliniano, nonché la Russia moderna.
Il primo capitolo, ovvero quello che si concentra sugli ultimi periodi nei quali era ancora “viva” la Russia zarista, focalizza l’attenzione sui nascenti movimenti rivoluzionari (da quelli nichilisti ai social-rivoluzionari, ai bolscevichi). Ciò che emerge è un’interessante accostamento, per ricollegarsi agli intenti insurrezionali e moralizzatori della popolazione russa, fra la figura del missionario e quella del rivoluzionario fino quasi a far sovrapporre le stesse. La fotografia proposta al lettore da Costa viene a delinearsi sempre più nitidamente, paragrafo dopo paragrafo, grazie ai molteplici riferimenti a importanti intellettuali, dell’epoca nonché moderni: James Webb, Savinkov e Berdjaev (solo per citarne alcuni).
L’evidente peculiarità di questo libro risiede nel costante accostamento fra rievocazione storica e analisi filosofico-politica. Ed è proprio tale particolarità che risulta efficace, affinché il lettore si cali nella realtà delle epoche raccontateci e comprenda l’intrinseco e profondo rapporto che risiede fra ciò che appartiene alla sfera politica e ciò che gravita intorno a quella spirituale.
Costa cita, giustamente, la nascita del gruppo denominato Bogostroitelstvo (ovvero ‘I Costruttori di Dio’) quale passaggio fondamentale per la cementificazione fra socialismo e religione, così da far convivere sia le radici più tradizionali che la nuova avanguardia. In questa prima fase, dunque, il lettore riscontrerà una chiara volontà di reinterpretare il sentimento religioso popolare nell’ambito del partito bolscevico.
Il secondo e il terzo capitolo risultano i più interessanti del libro sia per la loro maggiore articolazione che per i numerosi illustri pensatori a cui si fa riferimento. La prima foto che l’autore immortala a favore del lettore è quella dell’epoca leninista e dell’azione pro ateismo post-rivoluzionario. Chi legge il libro si troverà davanti a una rielaborazione analitica nella quale la rivoluzione bolscevica non è contemplata come semplice rivoluzione politica, ma piuttosto come rivoluzione etica. Il bolscevismo, infatti, ci viene presentato come attraversato e permeato da una significativa corrente parareligiosa, che si palesava nelle metafore linguistiche come nelle icone propagandistiche. Il bolscevismo, dunque, si avvaleva di lessico, grammatica e liturgia mutuati dal simbolismo della mistica ortodossa. Così come ha osservato lo storico, citato proprio da Costa nel suo saggio, Steven Merrit Miner “malgrado decenni di risolute campagne ateistiche sovietiche, la fede religiosa, specialmente combinata con il nazionalismo, è rimasta una forza politica e sociale cruciale con tutta l’era sovietica”. Dopo il 1917, dunque, c’è stato un evidente tentativo di instaurare una nuova religione politica; ciò che dovrebbe colpire maggiormente chi legge è lo smascheramento di una mistificazione che vedeva il nuovo sistema bolscevico come nemico di qualsiasi forma di culto.

In effetti, nel 1918 il Soviet Supremo aveva stabilito la rigida separazione fra Stato e Chiesa: la professione religiosa non veniva, quindi, proibita ma solo ridotta a semplice scelta personale da esercitare nella sfera privata. La Chiesa ortodossa si vedeva costretta a rinunciare a qualsiasi privilegio, come l’esenzione dalle tasse. Il sistema leninista riteneva sì che la religione fosse una forma di oppressione spirituale, ma non per questo veniva imposta l’abolizione del culto. La propaganda dell’ateismo era intrinseca al nuovo sistema, non perché la religione fosse dannosa in sé, ma in quanto rappresentazione della forza cieca del capitale.

Costa continua lo svisceramento dell’epoca leninista accompagnando passo passo il lettore grazie a molteplici riferimenti, fra cui “L’abc del Comunismo” di Bucharin.
Come anticipato, anche il terzo capitolo è di grande interesse, poiché si focalizza sull’epoca della svolta ortodossa e patriottica di Josif Stalin. “Allo scopo di assicurare ai cittadini la libertà di coscienza, la Chiesa dell’URSS è separata dallo Stato e la scuola dalla Chiesa. La libertà di praticare i culti religiosi e la libertà di propaganda antireligiosa sono riconosciute a tutti i cittadini”: così recitava l’articolo 124 della Costituzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche del 1947. Costa fotografa per noi una realtà dove stalinismo e religione vanno di pari passo e si intersecano, dove patriottismo e ortodossia sono due facce di una stessa medaglia. La religione ortodossa sarebbe stata, dunque, il simbolo della tradizione delle popolazioni slave, un elemento unificatore. Ogni territorio di occupazione sovietica doveva necessariamente essere omologato dal punto di vista legislativo, e questo implicava anche il coinvolgimento del clero ortodosso (con conseguente controllo sugli istituti di formazione teologica). Il ruolo della religione, dunque, era non solo finalizzato alla riappropriazione dell’identità russa, ma anche al controllo politico sui territori.

L’analisi dell’autore porta, infine, il lettore a riflettere sull’era post-sovietica e offre degli interessanti spunti di discussione. Da Dughin a Limonov, passando per la rievocazione delle opere e del pensiero di Evola, Costa si addentra nell’interpretazione di un’era, quella moderna, che presenta numerosi pensatori nonché scuole di pensiero. La ‘fotografia’ immortala il periodo della perestrojka e della glasnost , ma va anche oltre, spingendosi fino agli anni Novanta inoltrati.


Sarebbero sin troppo numerose da elencare le testimonianze che riguardano la complicata fusione fra spiritualità e patriottismo nell’era comunista post-sovietica. Costa ci offre, dunque, un’ottima sintesi di base da cui partire per approfondire la conoscenza dell’argomento, nonché una buona quantità di riferimenti bibliografici a cui attingere generosamente.


Quest’opera non solo è interessante per l’aspetto innovativo dell’analisi che ci viene presentata, ma anche e soprattutto perché, nonostante sia una lettura breve e scorrevole, va a toccare corde fondamentali quali la re-interpretazione del rapporto fra Stato e religione, e arricchisce il lettore grazie a un punto di vista insolito ma efficace. 

giovedì 29 settembre 2011

Ricordando Mauro

«Noi non vogliamo trovare un posto in questa società , ma creare una società in cui valga la pena trovare un posto.»

di Federica Savino

Baluardo della libera informazione, protagonista delle lotte studentesche del ’68, tra i fondatori nell’autunno del ’69 del movimento Lotta Continua, ideatore a Milano del primo centro sociale il Macondo. Tra il 71 e il 74 si recò diverse volte in Sicilia, dove insieme al compagno Peppino Impastato organizzava i disoccupati e i senza tetto di Palermo.
Torinese di nascita ma siciliano per scelta; dopo un’esperienza in India nella comunità degli “arancioni” di Osho Mauro Rostagno si trasferisce a Trapani dove nel 1981 fonda il centro Saman, un luogo di aggregazione che presto diverrà un centro di accoglienza e di recupero dei tossicodipendenti. È qui che gestisce un programma giornalistico di denuncia nell’emittente televisiva trapanese RTC. Quello che Peppino Impastato faceva dietro ai microfoni di Radio Aut, Mauro Rostagno lo faceva dietro lo schermo della televisione; denunciare le aspre contraddizioni che lacerano il nostro paese, una dura lotta contro la mafia che violenta la penisola.
Proprio tornando a casa da una sua trasmissioni il 26 settembre del 1988 il giornalista fu ucciso. La prima a soccorrerlo fu sua moglie Chicca, sulla quale cadde poi l’accusa di omicidio. I mandanti dell’omicidio furono ricercati anche tra le file dei compagni di Lotta Continua.
A febbraio di quest’anno, ventitre anni dopo, in aula il procuratore aggiunto Antonio Ingroia e il sostituto procuratore Gaetano Paci accusano Vincenzo Virra, capo mafia di Trapani, e il killer della cosca Vito Mazzara dell’omicidio di Mauro Rostagno. «Rostagno – dice il pm Paci – è stato ucciso dalla mafia perché faceva paura come giornalista, a Trapani come dimostrato in altre sentenze c’era insediato un sistema di potere che aveva paura che Rostagno diventasse specchio di quella realtà criminale, che la raccontasse con fin troppa dovizia di particolari in tv».
Uccidere per impedire ad un uomo coraggioso di far emergere la verità, di risvegliare le coscienze attraverso uno sguardo critico alla società italiana. Mauro Rostagno, Peppino Impastato, Giancarlo Siani, sono solo alcune delle vittime della mafia, uccisi per impedirgli di raccontare la verità.
Salutiamo Mauro e insieme a lui vogliamo ricordare tutti quegli uomini e quelle donne che hanno lottato per creare una società in cui valga la pena trovare un posto.

domenica 11 settembre 2011

Discorso del Presidente Allende alla radio, 11 settembre 1973

La famosa scrittrice cilena, Isabel Allende, cugina del presidente Salvador Allende, commenta così le ultime parole che ha ascoltato per radio: 

la voce era calma e ferma, le sue parole così precise e profetiche che il su addio non sembrava l’estremo respiro di un uomo che era a un passo dalla morte, ma il degno saluto di chi entrava per sempre nella storia. Si compiva il suo destino.”




 7.55, Radio Corporaciòn

Parla il Presidente della Repubblica dal palazzo della Moneda.

"Viene segnalato da informazioni certe che un settore della marina avrebbe isolato Valparaiso e che la città sarebbe stata occupata. Ciò rappresenta una sollevazione contro il Governo, Governo legittimamente costituito, Governo sostenuto dalla legge e dalla volontà del cittadino. In queste circostanze, mi rivolgo a tutti i lavoratori. Occupate i vostri posti di lavoro, recatevi nelle vostre fabbriche, mantenete la calma e la serenità.

Fino ad ora a Santiago non ha avuto luogo nessun movimento straordinario di truppe e, secondo quanto mi è stato comunicato dal capo della Guarnigione, la situazione nelle caserme di Santiago sarebbe normale.

In ogni caso io sono qui, nel Palazzo del Governo, e ci resterò per difendere il Governo che rappresento per volontà del Popolo. Ciò che desidero, essenzialmente, è che i lavoratori stiano attenti, vigili, e che evitino provocazioni. Come prima tappa dobbiamo attendere la risposta, che spero sia positiva, dei soldati della Patria, che hanno giurato di difendere il regime costituito, espressione della volontà cittadina, e che terranno fede alla dottrina che diede prestigio al Cile, prestigio che continua a dargli la professionalità delle Forze Armate. In queste circostanze, nutro la certezza che i soldati sapranno tener fede ai loro obblighi."

Comunque, il popolo e i lavoratori, fondamentalmente, devono rimanere pronti alla mobilitazione, ma nei loro posti di lavoro, ascoltando l’appello e le istruzioni che potrà lanciare loro il compagno Presidente della Repubblica.

8:15 A.M.

Lavoratori del Cile:

Vi parla il Presidente della Repubblica. Le notizie che ci sono giunte fino ad ora ci rivelano l’esistenza di un’insurrezione della Marina nella Provincia di Valparaiso.
Ho dato ordine alle truppe dell’Esercito di dirigersi a Valparaiso per soffocare il tentativo golpista.
Devono aspettare le istruzioni emanate dalla Presidenza.
State sicuri che il Presidente rimarrà nel Palazzo della Moneta per difendere il Governo dei Lavoratori.
State certi che farò rispettare la volontà del popolo che mi ha affidato il comando della nazione fino al 4 novembre 1976.
Dovete rimanere vigili nei vostri posti di lavoro in attesa di mie informazioni.

Le forze leali rispettose del giuramento fatto alle autorità, insieme ai lavoratori organizzati, schiacceranno il golpe fascista che minaccia la Patria.

8:45 A.M.

Compagni in ascolto:

La situazione è critica, siamo in presenza di un colpo di Stato che vede coinvolta la maggioranza delle Forze Armate.

In questo momento infausto voglio ricordarvi alcune delle mie parole pronunciate nell’anno 1971, ve lo dico con calma, con assoluta tranquillità, io non ho la stoffa dell’apostolo né del messia.

Non mi sento un martire, sono un lottatore sociale che tiene fede al compito che il popolo gli ha dato.

Ma stiano sicuri coloro che vogliono far regredire la storia e disconoscere la volontà maggioritaria del Cile; pur non essendo un martire, non retrocederò di un passo.
Che lo sappiano, che lo sentano, che se lo mettano in testa: lascerò la Moneda nel momento in cui porterò a termine il mandato che il popolo mi ha dato, difenderò questa rivoluzione cilena e difenderò il Governo perchè è il mandato che il popolo mi ha affidato.
Non ho alternative.

Solo crivellandomi di colpi potranno fermare la volontà volta a portare a termine il programma del popolo.

Se mi assassinano, il popolo seguirà la sua strada, seguirà il suo cammino, con la differenza forse che le cose saranno molto più dure, molto più violente, perché il fatto che questa gente non si fermi davanti a nulla sarà una lezione oggettiva molto chiara per le masse.
Io avevo messo in conto questa possibilità, non la offro né la facilito.
Il processo sociale non scomparirà se scompare un dirigente.
Potrà ritardare, potrà prolungarsi, ma alla fine non potrà fermarsi.

Compagni, rimanete attenti alle informazioni nei vostri posti di lavoro, il compagno Presidente non abbandonerà il suo popolo né il suo posto di lavoro.

Rimarrò qui nella Moneda anche a costo della mia propria vita.

9:30 A.M. RADIO MAGALLANES

In questi momenti passano gli aerei.
Potrebbero mitragliarci.

Ma sappiate che noi siamo qui, almeno con il nostro esempio, che in questo paese ci sono uomini che sanno tener fede ai loro obblighi.

Io lo farò su mandato del popolo e su mandato cosciente di un Presidente che ha dignità dell’incarico assegnatogli dal popolo in elezioni libere e democratiche.
In nome dei più sacri interessi del popolo, in nome della Patria, mi appello a voi per dirvi di avere fede.
La storia non si ferma né con la repressione né con il crimine.
Questa è una tappa che sarà superata.
Questo è un momento duro e difficile: è possibile che ci schiaccino.

Ma il domani sarà del popolo, sarà dei lavoratori.

L’umanità avanza verso la conquista di una vita migliore.

Pagherò con la vita la difesa dei principi cari a questa Patria.

Coloro i quali non hanno rispettato i loro impegni saranno coperti di vergogna per essere venuti meno alla parola data e ha rotto la dottrina delle Forze Armate.
Il popolo deve stare in allerta e vigile.
Non deve lasciarsi provocare, né deve lasciarsi massacrare, ma deve anche difendere le proprie conquiste.

Deve difendere il diritto a costruire con il proprio sforzo una vita degna e migliore.

9:10 A.M.

Sicuramente questa sarà l’ultima opportunità in cui posso rivolgermi a voi.

La Forza Aerea ha bombardato le antenne di Radio Magallanes.

Le mie parole non contengono amarezza bensì disinganno.

Che siano esse un castigo morale per coloro che hanno tradito il giuramento: soldati del Cile, comandanti in capo titolari, l’ammiraglio Merino, che si è autodesignato comandante dell’Armata, oltre al signor Mendoza, vile generale che solo ieri manifestava fedeltà e lealtà al Governo, e che si è anche autonominato Direttore Generale dei carabinieri.

Di fronte a questi fatti non mi resta che dire ai lavoratori: Non rinuncerò!

Trovandomi in questa tappa della storia, pagherò con la vita la lealtà al popolo.

E vi dico con certezza che il seme affidato alla coscienza degna di migliaia di Cileni, non potrà essere estirpato completamente.
Hanno la forza, potranno sottometterci, ma i processi sociali non si fermano né con il crimine né con la forza.

La storia è nostra e la fanno i popoli.

Lavoratori della mia Patria: voglio ringraziarvi per la lealtà che avete sempre avuto, per la fiducia che avete sempre riservato ad un uomo che fu solo interprete di un grande desiderio di giustizia, che giurò di rispettare la Costituzione e la Legge, e cosi fece.



In questo momento conclusivo, l’ultimo in cui posso rivolgermi a voi, voglio che traiate insegnamento dalla lezione: il capitale straniero, l’imperialismo, uniti alla reazione, crearono il clima affinché le Forze Armate rompessero la tradizione, quella che gli insegnò il generale Schneider e riaffermò il comandante Ayala, vittime dello stesso settore sociale che oggi starà aspettando, con aiuto straniero, di riconquistare il potere per continuare a difendere i loro profitti e i loro privilegi.

Mi rivolgo a voi, soprattutto alla modesta donna della nostra terra, alla contadina che credette in noi, alla madre che seppe della nostra preoccupazione per i bambini.

Mi rivolgo ai professionisti della Patria, ai professionisti patrioti che continuarono a lavorare contro la sedizione auspicata dalle associazioni di professionisti, dalle associazioni classiste che difesero anche i vantaggi di una società capitalista.

Mi rivolgo alla gioventù, a quelli che cantarono e si abbandonarono all’allegria e allo spirito di lotta.

Mi rivolgo all’uomo del Cile, all’operaio, al contadino, all’intellettuale, a quelli che saranno perseguitati, perché nel nostro paese il fascismo ha fatto la sua comparsa già da qualche tempo; negli attentati terroristi, facendo saltare i ponti, tagliando le linee ferroviarie, distruggendo gli oleodotti e i gasdotti, nel silenzio di coloro che avevano l’obbligo di procedere.

Erano d’accordo.

La storia li giudicherà.

Sicuramente Radio Magallanes sarà zittita e il metallo tranquillo della mia voce non vi giungerà più.

Non importa.
Continuerete a sentirla.
Starò sempre insieme a voi.
Perlomeno il mio ricordo sarà quello di un uomo degno che fu leale con la Patria.
Il popolo deve difendersi ma non sacrificarsi.

Il popolo non deve farsi annientare né crivellare, ma non può nemmeno umiliarsi.

Lavoratori della mia Patria, ho fede nel Cile e nel suo destino.

Altri uomini supereranno questo momento grigio e amaro in cui il tradimento pretende di imporsi.

Sappiate che, più prima che poi, si apriranno di nuovo i grandi viali per i quali passerà l’uomo libero, per costruire una società migliore.

Viva il Cile! Viva il popolo! Viva i lavoratori!

Queste sono le mie ultime parole e sono certo che il mio sacrificio non sarà invano, sono certo che, almeno, sarà una lezione morale che castigherà la fellonia, la codardia e il tradimento.

Santiago del Cile, 11 Settembre 1973.

11 settembre 1973. 38 anni dopo.

di Federica Savino

L’11 settembre di trentotto anni fa un violento complotto imperialista spezzava nel sangue il sogno cileno, il sogno di poter far approdare il Cile al socialismo attraverso l’arma delle libere elezioni democratiche. Il paese latinoamericano approdò in un incubo di oppressione e di miseria, i sostenitori di Unidad Popular (la coalizione che aveva appoggiato la candidatura del socialista Salvador Allende alla presidenza del Cile nel 1970) furono catturati, torturati e non in rari casi uccisi; noto è il caso dello stadio nazionale di Santiago trasformato in un’orrenda prigione.
Il venticinque maggio scorso venne riesumata la salma del Presidente Salvador Allende, la cui morte è una dei 726 casi noti di violazione dei diritti umani, su cui si sta indagando, di cui si è macchiata la dittatura militare di Pinochet. Il diciannove luglio di quest’anno sono stati divulgati i referti dell’autopsia: Salvador Allende si uccise. Tale tesi fu da sempre sostenuta dalla famiglia Allende, anche se qualcuno ha sempre affermato che quell’uccisione fosse avvenuta per mano dei militari che stavano per bombardare la Moneda, quel martedì dell’undici settembre del 1973.

La verità pervenutaci trentotto anni dopo la morte del leader di Unidad Popular non cambia nulla!
Quella fu l’ultima scelta del Presidente cileno, scelta che non assolve i responsabili del golpe per aver agito negli interessi degli Stati Uniti e della borghesia cilena, per aver bombardato il Palazzo Presidenziale, per aver distrutto il sogno di Salvador nonché del suo popolo, per aver annientato un uomo che, insieme alla sua coalizione, avrebbero potuto incidere drasticamente nella storia e nell’economia cilena e mondiale.
Qualcuno è ancora convinto servitore della ormai palese falsità storica che quegli scioperi che paralizzarono il Paese tra il ‘71 e il ‘73, furono il sintomo di un mancato sostegno popolare, che l’approdo al socialismo tanto caldeggiato dal Presidente era un pericolo per l’incolumità economica del Paese. Unidad Popular sì era pericolosa, ma ancor più pericolosa era la percentuale di consenso nel paese che continuava a crescere. Tutto ciò risultava nocivo per la grande potenza statunitense, per il grande pilastro "democratico" e neoliberista che rappresentava. Gli interessi economici nel paese latinoamericano erano enormi; le multinazionali americane tenevano in pugno l’economia cilena, tutte le risorse minerarie erano in mano ai grandi trust americani che in nessun modo potevano permettersi di perdere il primato.
La lotta doveva essere sfrenata, Nixon affermò che bisognava far “urlare di terrore l’economia cilena”, ma nonostante i continui sanguinosi boicottaggi economici degli Usa, appoggiati ovviamente dalla borghesia cilena, dalla Democrazia Cristiana (furono stanziati 2,7 milioni di dollari dalla CIA nel 1964 per contrastare la prima candidatura di Allende, sostenendo il candidato della DC Frey) e dai partiti di destra ( nelle elezioni del 1970 il sostegno andò al candidato della destra Alessandri ), il popolo cileno non abbandonò mai il governo di Unidad Popular.
Le folle di studenti che in questi mesi si sono riversate per le strade di Santiago e di altre città del Cile gridando “cadrà, cadrà l’istruzione di Pinochet” appaiono come una meravigliosa rinascita del sogno di Salvador Allende. Un movimento studentesco che nasce dal basso e che in maniera democratica e pacifica protesta mirando le basi di un sistema economico capitalista che è stato imposta dalla dittatura di Pinochet.  A maggio trentamila persone hanno manifestato a favore di una scuola pubblica e gratuita ( il 25% del sistema scolastico è finanziato dallo Stato e oltre il 75% si regge sul contributo degli studenti, circa il 65% degli studenti più poveri non riesce a terminare il suo percorso di studi a causa di problemi economici), contemporaneamente migliaia di persone sono scese in piazza in diverse città, contro il progetto HidroAysén, che prevede l'installazione di cinque mega centrali idroelettriche in Patagonia. La reazione e le proteste in difesa dell’ambiente sono state immediate, contrastando il gigantesco affare della multinazionale Endesa-Enel, associata al gruppo cileno Colbún. Precedentemente importanti movimenti regionali, come a Magallanes, protestavano contro gli aumenti del gas e a Calama per ottenere benefici reali dalla produzione di rame nella zona, così come le rivendicazioni di riavere la propria terra attraverso gli scioperi della fame da parte dei Mapuche.
Il progetto politico di Unidad Popular era assai ambizioso e non avrebbe potuto non scontrarsi con gli abnormi interessi economici della multinazionali e dei latifondisti. La legge di abolizione del latifondo fu approvato l’11 luglio del 1971. La suddivisione degli ettari fu controllata dalle organizzazione dei contadini che  favorirono l’occupazione da parte degli indiani Mapuche di quaranta mila ettari di terreno, terre che i latifondisti avevano usurpato ai nativi.
Tale legge fu preceduta dalla nazionalizzazione dei giacimenti minerari, nonostante le opposizioni parlamentari e degli Stati Uniti che provocarono la caduto del prezzo del rame sul mercato mondiale.
Il programma governativo ricomprendeva oltre alla nazionalizzazione delle grandi miniere di rame, iodio, ferro e carbone, anche quella del sistema finanziario, in particolare le banche private e le assicurazioni, del commercio estero, della grandi imprese e dei monopoli di distribuzione, dei monopoli industriali strategici, in generale di tutte le attività che condizionano lo sviluppo economico e sociale del paese, come la distribuzione e la produzione di energia elettrica, i trasporti ferroviari, aree marittime, le comunicazioni, la produzione, la raffinazione e la distribuzione del petrolio e dei suoi derivati.
Questi brevi riferimenti storici vogliono essere la prova che il malcontento, la mancanza di diritti, le disuguaglianze, la povertà che opprimono il Cile di oggi sono gli stessi che soffocavano il paese che Salvador Allende si era ritrovato a governare, con la differenza che l’obbiettivo del governo popolare, cioè quello di approdare attraverso un piano di riforme al socialismo, aveva le soluzioni per risolvere le controversie sociali ed economiche.

venerdì 2 settembre 2011

Dalla parte del lavoro: 6 settembre, ci saremo!

Vista la criminale manovra finanziaria voluta dal governo Berlusconi, che colpirà pesantemente i lavoratori e chiama la maggioranza della popolazione a pagare il conto della crisi, accogliamo con favore lo sciopero generale indetto 
( con colpevole ritardo!! ) dalla CGIL  e dai sindacati di base per il 6 settembre.
L’iniquità del sistema capitalista fa pagare la sua crisi non a chi  l’ha provocata ( banchieri, speculatori, imprenditori, finanzieri ) bensì alle classi popolari.
Tutto ciò non è accettabile né più sostenibile: bisogna mettere in discussione le stesse basi del sistema economico in cui viviamo; proprio quello che non hanno intenzione di fare né il centrodestra né il centrosinistra, che si sono resi responsabili in questi anni di attacchi senza precedenti alla scuola pubblica, alla sanità, ai servizi sociali e al Lavoro.
Quindi scenderemo in piazza al fianco di tutti i lavoratori e di tutte le lavoratrici e ribadiamo il nostro fermo e secco NO a questa manovra e alla politica economica e industriale (se ne avesse una...) del governo Berlusconi.

Ecco a nostro parere alcune proposte minime per uscire dalla crisi e per ridare dignità al nostro Paese:

  • stop alle missioni militari all’estero,rispetto della Costituzione ( solo i primi 7 giorni di guerra ci sono costati 12 milioni di euro!! )
  • cancellazione di grandi opere inutili e costose come la Tav in Val di Susa e il Ponte sullo Stretto
  • innalzamento immediato di tutte le pensioni minime
  • tassa sui grandi patrimoni e aumento della tassazione sulle transazioni finanziarie
  • colpire duramente gli evasori fiscali
  • eliminare i privilegi del Vaticano
  • ridurre drasticamente i costi relativi ai privilegi di parlamentari e senatori

Questo può essere già un buon inizio..!

domenica 21 agosto 2011

Fumo di Londra


Il complesso terreno comune tra crisi diverse
 di Marco Costa
 
Ad una settimana di distanza dagli accadimenti londinesi, mi pare doveroso proporre una bozza di riflessione che cerchi di inquadrare gli avvenimenti britannici al di là della superficialità con cui tanto i media borghesi quanto certa stampa patinata e perbenista di sinistra hanno sbrigativamente liquidato il fenomeno come mera questione di ordine pubblico impolitico.
Nottate con sirene urlanti, roghi infernali di interi quartieri da Tottenham a Croydon, fiamme incontrollate a negozi, edifici, poliziotti in affanno nei vani inseguimenti di gruppi che capillarmente emergevano e si dileguavano repentinamente nelle strade periferiche, scene di guerriglia e saccheggio che hanno dipinto le nottate di questa estate londinese con i colori di un'apocalisse postmoderna. E poi il solito copione di morti (3 almeno, ma altri 3 a Birmingham paiono legati più o meno direttamente alle stesse dinamiche dei riots), feriti, repressione indiscriminata, stato di assedio e dichiarazione di fatto di un coprifuoco permanente nella capitale e non solo, blindata con almeno 16 mila agenti antisommossa in servizio notturno permanente.
Se il brutale ed ingiustificato assassinio di un giovane pregiudicato di origine giamaicana da parte della polizia londinese – oltretutto, come se non fossero bastati i recenti episodi di discredito della stessa a seguito dell'imbarazzante coinvolgimento dei vertici di Scotland Yard nel Murdochgate con l'accertamento di ripetuti casi di implicazione in fenomeni di costante delazione e corruzione a favore di media bramosi di facili scoop – si è configurato come episodica scintilla, si tratta di scovare l'humus sociale in cui le periferie londinesi hanno costituito il terreno all'accensione di inediti fenomeni di insurrezione in Gran Bretagna, almeno dai moti a sfondo prevalentemente etnico dei primi anni '80, epoca delle famigerate rivolte di Nothing Hill e Brixton, che già allora indicavano un'ingovernabilità totale della società londinese agli albori del tatcherismo e poco prima dei moti operai che strenuamente si opposero per la prima metà dello stesso decennio a quel governo conservatore accanito in una mastodontica opera di riconfigurazione capitalistica, privatistica e reazionaria della società britannica. In effetti le analogie con la geografia urbana, economica e sociale della Londra di tre decenni orsono sarebbero molte; tuttavia, ed è quello che credo sia più interessante da sottolineare in questo passaggio, il movente dei riots attuali nonché il substrato sottoculturale in cui si sono alimentate le rivolte presenta caratteri meravigliosamente indicativi, per larga misura paradigmatici, dell'instabilità delle metropoli nei tempi del capitalismo postmoderno.
Il rapporto diretto tra speculazioni finanziarie ed impoverimento delle classi sociali più emarginate delle periferie (pauperizzazione del proletariato e proletarizzazione del ceto medio, avrebbe detto Marx), tra politiche economiche di lassaiz faire e nichilistica disperazione giovanile, pare sia stato timidamente scomodato anche dall'opposizione laburista di Ed Millbrand; e se i tabloid conservatori invocano tolleranza zero e plaudono alla ventata reazionaria di una polizia affaccendata nel ricorrere alle maniere forti, anche a larga parte dell'opinione pubblica labour pare naturale interrogarsi sul fallimentare dispositivo di desolazione economica ed educativa in cui il fenomeno del ribellismo giovanile ha attinto per decenni silenziosamente, covando sotterraneamente un potenziale rivoltoso che ha stupito solo i più ingenui, comunque del tutto ignari della costante commistione nella periferia dura di Londra di sottoculture, ribellismo giovanile e connivenze – cercate o obbligate – con ambienti delle gang malavitose.

Ma ammettiamolo, a scanso di equivoci: anche larga parte dei gruppi politicizzati della sinistra radicale inglese, da quel che mi pare di capire, abbondano di analisi rivoluzionarie un po' forzate; ne è un esempio, tra i tanti, l'acceso dibattito tra i compagni del SWP (Socialist Workers Party, di estrazione operaista-trotskista) e i compagni del CPGB (Communist Party of Grait Britain, terzinternazionalista), affaccendati in una controversia infinita nel tentativo di scorgere e fare decantare improbabili elementi rivoluzionari in occasione delle recenti sommosse che ben presto dalla capitale si sono allargate a macchia d'olio anche alle città di Birmingham, Nottingham, Liverpool e Manchester che, guarda caso, presentano nelle periferie più o meno analogamente lo stesso quadro di emarginazione, povertà, precarietà, atomizzazione e rifugio comunitario nelle flebili – almeno di fronte all'ondata della globalizzazione neoliberista – identità etniche. Insomma credo che anche questa volta, come in occasione di altre sommosse urbane recenti (si pensi alle banlieu francesi), le varie voci che salutano l'avanguardia della rivoluzione sociale prossima ventura (come appunto fanno i compagni dell'SWP) o quelle che rimandano ad una successiva educazione leninista della classica riottosità lumpen dei sobborghi spoliticizzati (come più o meno scolasticamente fanno i compagni del CPGB) siano letture legittime ma a cui sfugge forse il carattere scivoloso, poliedrico e contraddittorio della rivolta giovanile inglese.
La rapidità e la destrezza con cui la protesta per l'uccisione da parte della polizia del giovane Mark Duggan si è trasformata in una cronaca di saccheggi, incendi e vandalismo estraneo ad ogni ordine simbolico e rituale delle ribellioni classiche (basti ricordare le moltitudini di studenti che anche con metodi e rivendicazioni radicali si erano appropriate delle strade londinesi nello scorso inverno contro i vergognosi tagli all'istruzione perpetrati da parte del governo Cameron), suggerendoci semmai un tipo di sommossa che si beffa di ogni analisi categoriale, delle letture, delle sovrastrutture politiche e semiotiche a cui certa sinistra pseudomarxista troppo scolasticamente si è abituata.
Mi pare che più che ai testi rivoluzionari, questi fenomeni vadano inquadrati con le categorie del tribalismo postomoderno di cui parla il semiologo francese Michael Maffessoli, in cui sulla ceneri di una modernità sgretolata in ognuno dei suoi sistemi valoriali con pretese universalistiche, l'atomizzazione sociale induce solamente a rimodulazioni comunitarie orientate alla provvisorietà degli scopi (siano essi valoriali ed identitari o volti al saccheggio di un Apple Store alla caccia proprio di quelle icone che il totalitarismo consumistico fa apparire come necessarie ed includenti), o alla modernità liquida descritta da Baumann quando si fa cenno alla disintegrazione dei tessuti urbani e sociali negli spazi metropolitani contemporanei; ma certamente anche alla precarietà esistenziale di cui ci ha parlato magistralmente il sociologo Richard Sennet, come prodotto ultimo dell'abbandono dell'uomo ai tempi del turbocapitalismo in cui l'unico orizzonte è quello infinitesimale e diacronico, scandito unicamente dal tempo di produzione precaria ed anelito quotidiano al consumo bulimico di beni.

Si tratta quindi di gruppi fluidi, e chi ha frequentato Londra è fin troppo abituato alla cronaca quotidiana di omicidi, aggressioni fratricide e criminalità che hanno per protagonisti abituali gli adolescenti della città. Come in un vorticoso movimento, sfaccendati, precari, spesso segnati da un inquietante agnosticismo ideologico, educativo e valoriale, gli adolescenti delle metropoli occidentali postmoderne battono schizofrenicamente le strade metropolitane ostentando l'iconografia del loro abbigliamento griffato, assorbendo le contraddizioni di un'intera metropoli, di un intero modello sociale.
Quando l'inquietudine trova la scintilla, trova il pretesto e l'occasione per tramutarsi in disordine, per strappare il velo della realtà, ecco che l'evento insurrezionale assume forme simili ad un flash-mob, puro happening di rabbia del tutto e subito, dello sfogo febbrile frammisto di disperazione esistenziale di chi non ha nulla da perdere, del rito anarcoide e liberatorio in cui la legge del più forte, la stessa che il capitalismo ammanta nelle sue istituzioni, non è più lo scompaginamento dei valori istituzionali quanto il suo più estremo e spettacolare compimento.
Di fronte agli scricchiolii finanziari del sistema occidentale, in cui la finanza ha inventato ricchezze fittizie (i subprime) piazzando ai risparmiatori azioni farlocche finalizzate alla copertura di debiti individuali e statali quali dilazionamento della ricattabilità dei lavoratori (nella loro triplice veste anche di consumatori e risparmiatori), in cui i governi (come gli inglesi, appunto) bombardano popolazioni inermi sui 3 continenti in modo sistematico nella speranza di allargare approvvigionamenti di materie prime e di decomprimere la stagnazione economica nell'assurdità di una crisi economica in cui le lobby si ostinano a sperare di curarne gli effetti con le cause stesse che l’anno generata (sovrapproduzione/sottoconsumo,  divaricazione sociale, precarizzazione contrattuale, privatizzazione dei beni e del welfare, finanziarizzazione, deindustrializzazione), i ragazzi londinesi hanno trovato appagante – più o meno consciamente – reagire in modo tanto tribale quanto diretto, saccheggiando e spaccando tutto. Non facendo altro che quello che l'uomo occidentale ha altrettanto più o meno inconsciamente somatizzato da tempo nelle sue elite dominanti su scala planetaria.
Croydon brucia, contemporaneamente le borse planetarie crollano: in questo tratteggio apocalittico, il fatto che questi ragazzi siano condannabili dalla falsa coscienza conservatrice o che abbiano qualche reminiscenza politica o che sia solo una lauta ed inaspettata occasione di saccheggio mi pare un elemento, paradossalmente, secondario. Ken Livingstone, rimpianto ex sindaco laburista della capitale inglese, dice pubblicamente che questi ragazzi “semplicemente non pensano di fare parte di questa società”. Arduo davvero, anzi epocale, porsi il quesito se il sommo errore, oggi, sia quello di chi ritiene di non fare parte di questa società o quello di chi ritiene che questa società sia solo la somma nebulosa di individualità atomizzate giunta al capolinea nel suo tentativo di consolidare in occidente ed esportare altrove il totalitarismo consumistico, oltretutto con basi economiche platealmente fallimentari.
Ma da comunisti non possiamo certo crogiolarci sterilmente nella fine di un'epoca; dobbiamo arricchire la progettualità per l'epoca futura che già ci attende.

sabato 13 agosto 2011

Por Fidel Y la Revolucion!

L’attacco alla Moncada ci ha insegnato a trasformare le sconfitte in vittorie. Non fu l’unica amara prova delle avversità, ma nessuna riuscì a contenere la lotta vittoriosa del nostro popolo. Trincee di idee furono più potenti delle trincee di pietra.”
Fidel Castro, 26 luglio 1973
Fideltà 
di Plata

Dal 16 al 19 aprile si è tenuto a L’Havana il VI Congresso del Partito Comunista di Cuba, fatto idealmente coincidere con la Proclamazione del carattere Socialista della Rivoluzione e con le celebrazioni dei 50 anni dalla Vittoria di Playa Girón. Si è trattato di un Congresso fondamentale per il futuro del Paese, stretto tra la perdurante crisi economica mondiale e la continua aggressione da parte del potente vicino, gli Stati Uniti d’America.
Gli squilibri globali e la conseguente instabilità delle valute hanno comportato un forte calo delle esportazioni da Cuba ed un aumento dei prezzi delle merci importate, a loro volta in diminuzione. Ciò ha causato un arresto della crescita del Pil, che solo nel 2006 si attestava attorno al 12%, crollato a livelli decisamente bassi: dal 2009 ad oggi infatti il tasso di crescita è solamente del 1,5%, che per molti paesi capitalisti della vecchia Europa rappresenterebbe al contrario un grande risultato. Proprio per superare questa situazione che ha origine dalla più profonda crisi che il sistema capitalista abbia mai affrontato ( e che stanno pagando a carissimo prezzo tutti i lavoratori, gli studenti, i pensionati e i disoccupati ), Cuba ha dovuto mettere in atto un processo di critica e autocritica molto duro ma onesto: lo stimolo all’economia socialista, in questo determinato momento, non poteva più provenire dall’interno ma dall’afflusso di capitali esteri, esattamente come accade nella maggior parte degli altri stati socialisti ( Cina e Vietnam in primis ) e come fu costretto a fare il primo paese socialista della storia, l’URSS nel 1924. Tutto ciò per poter aumentare la competitività interna, accresce il dinamismo del sistema e creare nuovi posti di lavoro, nonostante il tasso di disoccupazione sia in realtà bassissimo. Ma è chiaro come a Cuba, anche una percentuale così bassa (stiamo infatti parlando di un tasso di disoccupazione che si attesta attorno al 2%) non possa considerarsi un successo e come gli sforzi del governo si concentrino anche in questa direzione.
Secondo la maggior parte dei giornalisti, degli economisti, degli opinionisti occidentali, il destino di Cuba sarebbe ineluttabilmente scritto. Cos’altro possono rappresentare le recenti aperture di Raul Castro e del PCC al mercato? Altro non sarebbero che la continuazione politica della direzione intrapresa all’inizio del “periodo especial” nel 1990: tagli alla spesa pubblica, un minor ruolo dello stato nell’economia, maggiore libertà di iniziativa economica e apertura ai capitali provenienti dall’estero. Il modello di “sviluppo” capitalistico, introdotto sull’isola dall’enorme afflusso di turisti, rappresenterebbe uno stimolo inarrestabile soprattutto per le giovani generazioni attratte dal consumismo e dalle “libertà” occidentali.
L’originalità non è decisamente il punto di forza di costoro: dal 1959 infatti, Cuba e la sua Rivoluzione sarebbero già dovuti crollare sotto il peso della dittatura e della povertà. Il primo di questi “profeti” fu proprio l’uomo degli Stati Uniti a Cuba, il dittatore Fulgencio Batista:
“Fidel Castro rimarrà al potere al massimo per un anno.”
Fidel compie oggi 85 anni, la maggior parte dei quali spesi per Cuba e il suo popolo. Uno dei più carismatici e intelligenti uomini politici che la storia moderna ci abbia consegnato: insieme a rivoluzionari del calibro e della grandezza di Guevara e Cienfeguos ha aiutato la sua gente a liberarsi dal giogo imperialista. Ha difeso la nascente nazione cubana dagli attacchi militari ed economici di chi vedeva un pericolo costante, una minaccia mondiale, nella voglia di autodeterminazione e indipendenza di questa isola caraibica. Alfiere delle libertà delle popolazioni oppresse dell’America latina così come di quelle africane e asiatiche, stritolate dal capitalismo assassino, e sostenitore di ogni movimento rivoluzionario. Così ne parla Nelson Mandela:
"Fidel Castro è uno dei miei migliori amici. Sono orgoglioso di essere tra coloro che sostengono il diritto dei cubani di scegliere il proprio destino. [..]      I cubani ci ha dato le risorse finanziare e la formazione per combattere e vincere. Io sono una persona leale e mai dimenticherò che nei momenti più bui del nostro paese nella lotta contro l'apartheid, Fidel Castro è stato dalla nostra parte. "
Leader Maximo di un piccolo Stato, fondato sul Poder popular, sulla democrazia partecipativa di tutti i cittadini a prescindere da sesso,razza,religione,censo o appartenenza politica. In cui la sanità e l’istruzione non sono privilegio di pochi, ma diritto di tutti: ovviamente gratuite e con elevatissimi livelli di qualità, riconosciuti in tutto il mondo. Leader di un Paese in cui i problemi non mancano, senza dubbio, ma dove il processo rivoluzionario ha insegnato ad affrontarli con coraggio e onestà. Rivolto agli studenti disse:
“ Essi (gli Stati Uniti,ndr) non potranno mai distruggerci. Ma questo Paese si può auto-distruggere..noi possiamo distruggere noi stessi, e sarebbe soltanto colpa nostra.”
Militante del Partito Comunista Cubano e soldato delle idee, come si ama definire, continua con la sua penna e la sua intelligenza a mettere a nudo le ipocrisie e le barbarie del sistema capitalista, nella durissima e continua battaglia delle idee. Battaglia dalla quale il compagno Fidel non si è mai ritirato, nemmeno nei momenti più difficili. Come diceva Bouteflika, Fidel viaggia verso il futuro, torna indietro e ce lo spiega.
“E’ davvero sorprendente che sistema di merda sia il capitalismo, che non può garantire al suo stesso popolo un posto di lavoro, non può garantire la salute, l'istruzione adeguata, che non può evitare di rovinare i giovani con la droga, con il gioco e con i vizi di ogni genere. "
Viva Fidel!
Viva la Revolucion cubana!
Hasta la Victoria! Siempre!

mercoledì 3 agosto 2011

Siamo tornati!


« Fino a quando i fascisti continueranno a bruciare le case del popolo, case sacre ai lavoratori, fino a quando i fascisti assassineranno i fratelli operai, fino a quando continueranno la guerra fratricida gli Arditi d'Italia non potranno con loro aver nulla di comune. Un solco profondo di sangue e di macerie fumanti divide fascisti e Arditi. »


« ...Ben lontani dal patriottardo pescicanismo, fieri del nostro orgoglio di razza, consci che la nostra Patria è ovunque siano popoli oppressi: operai, masse lavoratrici, Arditi d'Italia: a noi! »